TENNIS – DI JASON D’ALESSANDRO – Considerazioni e ricordi nati dall’incontro a New York tra due indiscussi fuoriclasse dello sport, Roger Federer e Michael Jordan.
Io me lo ricordo bene Michael Jordan e, per questo, mi ritengo un privilegiato. Ricordo il pugno chiuso dopo un canestro decisivo, ricordo come fosse ora i due punti che gli assegnarono il sesto anello NBA e che, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, gli conferirono il trono più alto nella storia del basket. In quell’azione di gara 6 della finale “Utah Jazz – Chicago Bulls” del 1998, fece qualcosa di irripetibile; anche chi ha solo una lontanissima idea di cosa sia la pallacanestro, non può non rendersene conto. “Siamo a Salt Lake City, la casa degli Jazz, che per il secondo anno tentano di conquistare il titolo NBA guidati da Karl Malone e John Stockton, non proprio degli sprovveduti. Chicago conduce la serie 3-2, Utah gioca per portarla a gara 7, lì poi si vedrà. Qualcuno non è d’accordo e quel qualcuno è Michael Jordan. Mancano pochi secondi alla fine, gli Jazz sono sopra di un punto e hanno il vantaggio del possesso palla. Lo schema che li ha portati fin lì passa dalle manone di Malone. Il tempo scorre, la palla viaggia verso Malone ma troverà Jordan, il quale lascia il suo uomo e attacca alle spalle: manata sulla sfera che rimbalza tra le gambe di Malone e finisce, sicura, nelle sue mani. La situazione non è poi così diversa, in effetti mancano sempre meno secondi, gli Utah Jazz sono sempre sopra di uno, ma c’è un piccolo enorme particolare: la palla ora ce l’ha Jordan. Si avvia in palleggio verso Bryon Russell, al tempo considerato uno dei migliori difensori della lega, lo punta, lo mette a sedere, si alza in sospensione e segna. I Bulls sono campioni NBA per la sesta volta, la terza consecutiva.”
Non ho mai visto giocare Pelè, ricordo a malapena Maradona, ma ho passato, da bambino, nottate in bianco ad ammirare Jordan (ancora ho i VHS, non li darei via neanche sotto tortura) e da qualche anno passo le stesse nottate con due piccole differenze: la prima è che sono un bambino un po’ cresciuto, la seconda, che incorniciato nello schermo trovo un campo da tennis. In risposta al bell’articolo di Rossana Capobianco sulla “vitaccia” degli appassionati di tennis, rispondo con queste parole. Sono convinto che scuola, lavoro, andare alle poste o in banca o che so, dal commercialista, perda importanza di fronte alla, anche lontanissima, possibilità di essere il primo (a pari merito con una bella fetta di mondo) ad ammirare qualcosa che poi si racconterà negli anni a venire; è un modo per dire: “io c’ero!” omettendo le parole “davanti un televisore”, a meno che non te lo chiedano espressamente. Eh si! Noi ci siamo stati, perché sono convinto siamo in tanti.
La foto che, da qualche giorno, gira sul web, quella che immortala Jordan e Federer vestiti di bianco, appare come un ringraziamento, forse involontario, a quelli che ormai gli sono affezionati. Chi lo sport non lo vive e si limita a guardarlo non può capire, non ci riesce proprio! “Federer è finito!”; “Jordan che rientra a 40 anni è ridicolo”; “si deve ritirare” e chi più ne ha più ne metta. Federer è appena cominciato, Jordan pure e quella foto ne è la prova: gli occhi di Michael e Roger sono quelli di un qualsiasi fan. Mi spiego. Se fossimo al posto di Roger avremmo lo stesso sguardo misto di gioia, ammirazione e rispetto e così se fossimo al posto di Michael. Entrambi sanno di “essere” ed “essere a contatto” con la storia. Non c’è più o meno, ci sono due troni posti alla stessa irraggiungibile altezza. L’uno e l’altro si fondono, tanto che l’uno diventa l’altro in quel processo chiamato “karuna”: a volte l’amore per quello che facciamo è così grande e perfetto che diventiamo ciò che facciamo. Jordan e Federer rappresentano l’essenza dello sport e quindi diventano uno. Karuna appunto…
Il punto è che si sono spinti oltre lo sport. L’albo d’oro NBA, nei tre anni dal ’93 al ’95 non vede i Bulls. MJ dopo aver infilato tre anelli nel ’90, ’91, ’92 si ritirò. Dopo l’assassinio del padre si allontanò dal parquet e giocò, per un periodo, a baseball. Reagì come avrebbe reagito chiunque, non fu speciale, solo umano. Poi però quel fuoco che gli bruciava dentro si riaccese, trasformò la rabbia in lavoro; il talento, inutile dirlo, ne uscì intaccato. Migliorò il tiro dalla media e quello da tre punti, allontanò il suo gioco da canestro; il risultato fu devastante. Rientrò nel ’96 e vinse il titolo. Quello che rende i due quello che sono è la normalità che lasciano trasparire. Federer piange. Piange quando vince e anche quando perde. Le lacrime al fianco del suo eterno rivale Rafa Nadal, dopo la sconfitta in 5 set all’Australian Open 2009, lo rendono ancora più grande. Le lacrime di Andy Murray sulla sua spalla e quell’abbraccio rassicurante come a dirgli sincero “tranquillo Andy, lo vincerai il prossimo anno” lo rendono uno di noi. Federer è l’eleganza in campo e fuori, l’umiltà nella consapevolezza di aver superato da un pezzo il concetto di sport, è il suo amore per Mirka. Questo è Roger Federer, che a 33 anni si diverte ancora, incanta e raggiunge, vestito di rosso, la finale della Davis. A chi ancora si ostina a darlo per “finito” il consiglio è di fare attenzione: Jordan alla sua età vinse il quarto titolo … dopo ne vinse altri due.
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