Da Federer e Djokovic a Nishikori e Cilic: il tennis che cambia tra dubbi, dati di fatto, ed un doping che non c’è… Ma c’è stato

TENNIS – Di Daniele Azzolini

NEW YORK. Dal tramonto all’alba, fra grandi campioni un po’ zombie, e nuovi tagliateste un po’ crudeli, il tennis cambia. Volti, storie, strada. E chissà dove ci porterà.

La finale fra Kei Nishikori, l’ex Progetto 45, un soprannome che evoca sigle alfanumeriche da Guerra Fredda, e le banalizza adattandole a un obiettivo da nulla, come quello di cancellare il numero 46 Atp di Shuzo Matsuoka, il giapponese gentile tanto quanto Kei è il giapponese scostante; e Marin Cilic, ieri “croato un po’ dopato molto incazzato con chi lo aveva beccato”, oggi per fortuna solo croato, status che gli auguriamo di conservare intonso e in eterno, cancella di fatto l’Era dei Fab Four, o al contrario, invita ad aprire quella dei Fab Six, o Seven, fors’anche dei Fab Ten o Eleven, se si fa la conta degli aspiranti al comitato esecutivo. Da intendere, stavolta, esattamente come il comitato delle esecuzioni, possibilmente pubbliche, certamente spietate, contro chi ha governato fino a qua, ininterrottamente per dieci anni, lasciando agli altri briciole di titoli e di assegni.

Crudele finché vi pare, ma logico, il ribaltone. Atteso, persino, se è vero che da tempo ci chiedevamo chi ne avrebbe approfittato per primo, se Raonic Schianta Maroni o Dimitrov El Drito, se Nishikori Progetto a Scalare (da 45 era arrivato a 15, ora a 5) o Nick Mano Fredda Kyrgios, o magari proprio Marin “Cilicio” Cilic, che si fa portare per mano da Goran Ivanisevic, così come Raonic da Ljubicic, Nishikori da Chang, Djokovic da Becker e Federer da Edberg, per dire che anche gli “antichi” non sono facilmente sostituibili, o dimenticabili come si è cercato di fare in Italia (usiamo il passato, dato che il tentativo è franato alla stregua del nostro settore tecnico, incapace di crescere un giovane che è uno). Kei e Marin, i nomi proposti dalla Notte dei Tennisti Viventi. Vedremo che funzione avranno… Se quella di rompere il fronte avverso, e aprire la strada ad altri, o di insediarsi loro al vertice. In tal caso dovranno avere spalle grandi, come Djokovic quando è giunto a insidiare Federer e Nadal, come Murray quando si è seduto al tavolo dei Grandi trasformando il tennis in un poker. È un fatto, i nuovi avventori non sono avventizi. Kei ha 24 anni, Marin è a un passo dai 26. Sono giocatori formati, completi, migliorabili di quel tanto ma non più modellabili. E io trattengo i miei dubbi, se proprio lo volete sapere. Sulla consistenza dei nuovi finalisti, sul futuro che sapranno illustrarci. Così come non do per scontato che l’occasione mancata spinga Federer verso decisioni sin qui posticipate, tanto meno dopo la splendida stagione vissuta e la riproposizione del suo tennis in un format più aggressivo e “volleante”. Figurarsi per gli altri, Djokovic, Nadal, Murray, Wawrinka e lo stesso Del Potro, se e quando tornerà. Avranno ancora molto da dirci. Ma è un fatto, quando storicizzeremo gli eventi di questi giorni, traendone le conclusioni, fra dieci anni e più, o quando vorrete voi, diremo e scriveremo che l’anno della svolta fu il 2014, il torneo dell’annuncio l’Australian Open di gennaio, che Wawrinka sfilò a contendenti troppo sicuri di sé, e il torneo del ribaltone lo Us Open di settembre, quando un giapponese molto dinamico e consistente, lungi dall’essere un inventore di tennis, e un croato che sembra avere le qualità per migliorare la stirpe da cui proviene, quella dei grandi cecchini (Ivan Ljubicic, Goran Ivanisevic), un po’ spreconi (Goran), e un po’ limitati (Ljubo) si ritrovarono di fronte in una finale che tutti pronosticavano appartenente ad altri.

Nuove domande seguiranno, sull’avvento dei nuovi favolosi, o presunti tali. La prima sarà nei numeri di questa finale. Quanti la seguiranno, e quanti avrebbero seguito quella fra Djokovic e Federer? Presto sapremo, ma non vorrei scoprire che il nuovo corso, dopo gli anni delle piene talvolta travolgenti, sarà quello dei rigagnoli, freschi ma striminziti di acque. Per il tennis che non è riuscito ad approfittare del benessere portato dai grandi dell’ultimo decennio a causa di una crisi economica di proporzioni mondiali, sarebbe un duro colpo scoprire che il fatturato dei nuovi (interesse globale, indotto, vendite, numeri televisivi) è una briciola rispetto a quello garantito dal vecchio corso.

Infine, un’ultima riflessione, che non è – si badi bene – un atto di accusa. Solo una presa d’atto. Il vecchio Super Saturday in edizione Thriller, ha portato in finale per la prima volta due reduci da problematiche doping. Marin Cilic e Martina Hingis. Diverse fra loro, certo, addirittura opposte, Marin caduto nella rete per la tardiva e un po’ sbadata ammissione di un medico, Martina per cocaina, che a tutto serve tranne che a vincere nello sport. Problematiche contestate dai due, rifiutate, combattute, ma alla fine colpite da condanna, e dunque cumulabili sotto questo unico e spiacevole tetto. È successo, cioè, che fino a sabato scorso erano giunti in finale (nello Slam, nei tornei del circuito) atleti solo in un secondo momento accusati di doping: Puerta, Troicki (anche questa, una condanna a molti apparsa ingiusta), e altri come loro. In questi Us Open, per la prima volta, compaiono in finale nomi di atleti già colpiti da sentenza. È il segno che la giustizia, quando sa perdonare, aiuta il recupero di quanti hanno sbagliato? Sì, ovvio. Ma nuovi strascichi polemici saranno inevitabili.

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