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24 Ago 2014 22:28 - La parola del Direttore
Ace Cream / Jimmy Connors ed il ’74, la trasformazione nel mito amato dagli americani
di Daniele Azzolini
TENNIS – Di Daniele Azzolini
L’anno della trasformazione fu il Settantaquattro. In quello, James Scott, i capelli a caschetto e una madre a carico nota per i potenti attributi, già derubricato a Jimmy per pura e semplice comodità, fece l’atteso salto di qualità diventando Jimbo, mezzo tennista e mezzo elefante.
Un elefante che all’occasione sapeva volare, un po’ come Dumbo (Jumbo Jr. nella scrittura originale, non a caso), al quale lo legava anche l’iniziale scetticismo. “Ne ho viste tante da raccontar, giammai un elefante volar”, cantavano i corvi del film. E anche Jimbo dispiegava le ali del suo rovescio bimane, distendendosi in ardimentose volée in tuffo. O era davvero Dumbo?
Al di là di ogni ragionevole dubbio, quel 1974 era cominciato mettendo in fila gli australiani a casa loro, nello Slam che si giocava a cavallo di due anni, cominciava il giorno di Santo Stefano e finiva prima della Befana. Graeme Thomson, Syd Ball, John Alexander in semi, e Phil Dent per la chiusura vittoriosa della campagna.
Era il primo Major di una carriera cominciata quattro anni prima, che dal Settantadue – la prima stagione da pro – procedette a suon di vittorie (sei quell’anno, undici il successivo) e pizzini, cuciti nei risvolti delle tasche dei pantaloncini da gioco, opera di mamma Gloria. Erano, quelli, dei veri e propri attentati alle più intime sicurezze del giovane Jimbo, ma anche dei richiami incisivi, risoluti. “Se non vinci, non ti presentare a casa stasera”, scriveva e cuciva la virago. Il problema era prenderli per il verso giusto, quei messaggi, e Jimbo, capita l’antifona, aveva pensato bene di non deludere la mamma e tenersi stretta la cuccia della sua stanza a Belleville, dov’era nato il 2 settembre di ventidue anni prima.
L’America sulle spalle
«Batterlo a casa sua era come sconfiggere l’America intera», racconta Adriano Panatta, che di Jimbo fu amico (abbastanza amico, per la precisione) e sodale nelle numerose esibizioni che ingrassavano i magri guadagni di quegli anni, quando il montepremi del Roland Garros sfiorava appena i 200 mila dollari. “Con Jimbo valeva la regola del tre. E quando si giocava in America, davanti a un pubblico che cominciava a volergli bene, anche quella del quattro, o del cinque”, scrive Adriano nella sua autobiografia (Più diritti che rovesci – Rizzoli – 2011). “Su quei campi, i suoi campi, per superare Jimmy Connors era necessario batterlo tre volte, o quattro. E di conseguenza fargli tre volte il punto, essere pronti a giocare tre volée per chiuderne una, o tre smash per essere certi che lui non si sarebbe arrampicato sul più alto dei pennoni pur di riprenderli”. Il ricordo di Panatta è di qualche anno lontano da quel 1974 che vide Jimbo praticamente imbattibile. Qui siamo nel 1978, agli Us Open che li posero di fronte negli ottavi, ma i giudizi valgono per l’intera carriera del “New Yorker del tennis”, la definizione che il sindaco Dinkins coniò per Jimbo. “Ricordo il quindici che decise la contesa, un punto e un colpo che mi strapparono di dosso le forze e insieme la voglia di provarci ancora. Eravamo sul 5-4, nel quinto set. Avevo breakkato Jimbo ed avevo il servizio per chiudere l’incontro. Si stava in campo da non so quanto, e tra i giocatori si era sparsa la voce che sul nuovo Centrale si stesse giocando un tennis da capogiro. Era vero. Tutti punti vincenti, una sequenza ininterrotta di colpi da kappaò. La tribunetta dei tennisti, di lato, si era riempita. C’erano tutti: Chris Evert, Martina Navratilova, John McEnroe…
Andai sul 30 pari e mi concentrai su quella palla. Se l’avessi messa a segno avrei servito il primo match point. Lo scambio fu duro, mi spinsi avanti come al solito, piazzai una volée a uscire. Era il punto che aspettavo. Ne ero certo.
Fuori campo
Invece, Jimbo quella palla andò a riprenderla, velocissimo dopo non so quante ore di match. Si spinse fuori dal campo, fin quasi sugli spalti, e colpì di rovescio in un misto di disperazione e presunzione, perché solo lui poteva pensare di tenere in campo una palla così. Ce la fece. La pallina passò esterna alla rete e chiuse la sua corsa proprio all’incrocio delle righe.
Guardai Jimbo che esultava come un folle, sbracciandosi verso non so quali divinità appollaiate sugli spalti dello stadio. Il suo stadio. Scossi la testa, lanciai ben più di un’imprecazione, ed è inutile negare che fossero tutte dirette a lui, che dava ancora di matto. Poi incrociammo i nostri sguardi, lui mi fece un cenno come a dire… «Capita!», io gliene feci un altro, giusto per ribadire che una fortuna così non l’avevo mai vista. Storie. Per tentare quel colpo bisognava essere di pasta Connors: ci avesse riprovato magari non ci sarebbe più riuscito, ma state tranquilli, se fosse esistita anche solo una possibilità di farcela, Jimbo era l’unico che avrebbe trovato il modo. E me lo aveva dimostrato.
Il match finì lì. Gli ultimi game mi videro straziato, di fronte a un giocatore che aveva ritrovato d’incanto tutte le forze. Non serviva più nemmeno attaccarlo sul suo diritto, ed era un piacere farlo perché Jimbo quel colpo lo aveva davvero scarsino. Niente. Ormai gli riusciva tutto e lo stadio era diventato una bolgia. Alla fine mi volle abbracciare a lungo sul campo, quasi concedendomi l’onore delle armi, e addirittura mi ringraziò. Mi disse una cosa del genere «Hai tirato fuori tutto il meglio di me». Già, bella fregatura!”.
Parigi proibita
Le successive sette vittorie americane (su nove tornei) di quel 1974 servirono ad avvicinare il primo posto della classifica, ma non evitarono a Jimbo, nella sua stagione migliore, la più mortificante delle rinunce. Con una letterina di poche righe, gli organizzatori del Roland Garros gli rifiutarono l’iscrizione allo Slam sulla terra rossa. Così voleva l’ITF, allora più di oggi, una congrega di dirigenti non professionisti votata a fare il male del tennis pur di tenere salde le proprie poltrone. E gli organizzatori francesi non ebbero la forza di respingere l’intromissione. Si rimproverava a Connors la sua appartenenza al Team Tennis, il campionato intercittà americano, visto (chissà perché) come un maleficio dai dirigenti di allora, convinti che avrebbe prodotto qualche zona franca nella quale loro non sarebbero riusciti a infilare il naso. Insomma, lo rispedirono a casa, il povero Jimbo, e solo dopo si capì quale danno furono capaci di arrecare all’atleta e a tutto il tennis, quei dirigenti incapaci. Quando Jimbo completò i tre quarti del Grand Slam, fu ovvio chiedersi come sarebbe andata se avesse potuto partecipare anche al torneo parigino. E la risposta la conosciamo tutti.
Furono i dirigenti di Wimbledon a rispedire al mittente le attenzioni dell’ITF. Connors esordì con Bengtson, rischiò non poco con Dent (10-8 al quinto dopo essere stato sotto 2 set a 1), infilò Panatta in terzo turno e salì rapido sino alla finale con Ken Rosewall, che giocava la sua quarta chance di vincere i Championships a venti anni di distanza dalla prima. Jimbo, assai poco colpito dalla composta regalità del proprio avversario, lo travolse senza particolari riguardi. «E fece bene», dice oggi il vecchio Ken, troppo signore per appartenere a questo tennis, «perché lui giocava e vinceva così, e io ce la misi tutta, non fui affatto male, anche se il punteggio nasconde questa mia piccola convinzione». Finì 61 61 64.
Andò peggio agli Us Open di Forrest Hills, sui campi in erba del West Side Tennis Club, per il povero Rosewall, a un passo dai 40 anni. Lì fece appena due game, ma Connors era diventato ormai imprendibile, e giocava di sponda con una violenza che i tennisti delle precedenti generazioni non comprendevano e nemmeno sopportavano. La finale durò pochi minuti in più di un’ora, neanche fosse la conclusione
del torneo femminile.
La stagione si chiuse con altre tre vittorie (Los Angeles, Londra indoor e Johannesburg) e una semifinale. Il conto finale consegnava a Jimbo quindici titoli, il numero uno della classifica, artigliato a fine luglio, e un ruolo da Grande Antipatico che lui sembrava gradire. Quanto meno, non lo rifiutava. Contribuirono, alla nomea, le sue polemiche con la federazione internazionale, certe dichiarazioni trancianti, e più ancora le insofferenze manifeste nei confronti di arbitri e pubblico. Piaceva solo negli States, Jimmy, e lui non pretendeva di meglio.
Sempre all’attacco
Era un attaccante, inutile dirlo. Il primo attaccante da fondo campo. Mancino, doti atletiche e di resistenza fuori dal comune, un rovescio bimane che aveva la potenza rabbiosa di una scudisciata, un gioco di gambe perfetto, da ginnasta dei campi da tennis. E una filosofia di gioco che non accettava di attendere l’errore dell’avversario. Con il rovescio Connors dava pressione al gioco sopperendo alla qualità (assai) meno brillante del servizio e del dritto. E nella risposta al servizio di rovescio, forse il suo colpo migliore, mise in mostra doti balistiche fuori dal comune. Fu anche il primo, Jimmy, ad usare una racchetta in ferro, la Tx2000 della Wilson, che dava maggiore potenza ai suoi colpi grazie alla maggiore rigidità.
Il resto prese forma nei confini sterminati di una carriera ultra ventennale. Centonove tornei vinti, 53 finali, otto vittorie e sette finali nei tornei del Grand Slam. Jimbo raggiunse ancora una volta la semifinale degli Us Open a 39 anni, e fu numero uno del mondo per cinque anni consecutivi, dal 1974 al 1978, e nella Top Ten per sedici stagioni. Unico vuoto nell’incredibile palmares di Jimbo è la Coppa Davis che assai poco giocò, qualche volta rifuggendone quasi fosse intimorito dalle responsabilità che la Coppa è solita proporre. Appena 13 match di cui 10 vinti, tutti in singolare. Le sconfitte vennero da Ramirez, Cash e Wilander, ma Connors anche in Davis seppe battere tennisti di primo piano come Lendl, Clerc e Nastase. L’unica finale raggiunta, a Goteborg contro la Svezia vide i padroni di casa prevalere per 4-1. Una delle poche sconfitte del suo magico Settantaquattro.
Sarà difficile vincere più di Jimbo. Di più… Sarà difficile ricoprire con la stessa forza e dignità agonistica, sia il ruolo di numero uno del mondo, sia quello di sfidante, sia infine quello di campione sempreverde, ancora in grado di vincere a 40 anni e di regalare emozioni.