TENNIS – ACE CREAM. DI DANIELE AZZOLINI – Ho visto molti addii, e molti ritorni, credo ne vedrò ancora, e continuerò a pensare che non tutti meritino un’attenzione che vada oltre la cronaca, la presa d’atto dell’avvenuto distacco, o la curiosità per l’interpretazione che si è saputa dare della personale volontà di riprovarci.
Poche volte ho avuto la sensazione che la fase calante di una carriera sportiva suggerisse pensieri di cui tenere conto, se non quelli più banali, sulla caducità delle persone e delle umane cose. Anche le carriere più alte. Anche le più avvezze ai fasti della gloria. Ma qualche volta è capitato, e in quelle rare occasioni non è stato così difficile rintracciare, nel divenire delle vicende che ho avuto la fortuna di seguire, un messaggio più alto, persino universale nel suo essere diretto a chiunque ritenesse di farlo proprio.
Penso a Connors, che seguii dagli scanni bassi del Luis Armstrong di Flushing Meadows esultare sulfureo su ogni punto del suo quarto di finale del 1991, che lo consegnò trentanovenne alla sua ultima semifinale degli Us Open. Sul palcoscenico che lo aveva eletto a New Yorker, cittadino tosto della città più tosta, Jimbo mise in scena la quintessenza della sua sfacciataggine. Sollevava il dito medio in faccia al pubblico, provocava avversario (Haarhuis) e spettatori, urlava frasi irripetibili. Ma aveva tutti dalla sua parte. Il Grande Antipatico vinceva così la sua ventennale battaglia sui tradizionalisti benpensanti che lo avevano trafitto di continue frecciate. Era andato talmente oltre – nei modi, nei meriti, nei risultati, nell’incanto di resistere al procedere degli anni – da ritagliarsi un posto nel cuore della gente. Non c’era un solo americano, in quel momento, che non volesse essere come lui. Anche solo un po’.
E penso a Martina Navratilova, che sei volte disse basta e sei tornò a giocare. Scrissero in molti, e forse io stesso, che lo facesse per un record da condividere con tutte le donne del mondo, e non credo vi sia primato più assoluto che raggiungere i 48 anni sul campo da tennis. Ma non era quello il messaggio. Martina aveva altra mire, che lì per lì sarebbero apparse ben più fragili di quelle che le venivano assegnate, se l’avvenuta decontaminazione dai troppi idealismi non ci avesse insegnato a guardare più al sodo e a non caricare altri di orpelli ideologici che da loro non fossero stati invocati. In realtà l’ex cecoslovacca, trattenendosi nel tennis, veicolava un messaggio quasi provocatorio in quegli anni (erano i Novanta) così centrali nella crescita professionale del circuito femminile. Esortava le ragazze a non mettere da parte il divertimento, anzi, esortava a farne uno dei caposaldi di una nuova professionalità. Con il suo esempio ricordava a tutte che divertendosi a fare ciò che si fa, il mestiere diventava più umano, e il tennis sarebbe apparso più felice, se non addirittura più spettacolare. Aveva ragione e aveva visto giusto.
Ebbe due eredi, diversissime da lei per gesti tecnici, ma in grado di raccogliere il messaggio per l’aspetto più profondo. Serena e Venus, cui molto è costato, in termini di critiche, impegnarsi a non essere “solo tenniste” nell’arco delle loro carriere, che si sono allungate proprio in ragione del disimpegno che si sono concesse per lunghi tratti della loro presenza nel circuito. Altre si sono consumate di tennis, loro si sono divertite a creare nuove occasioni di lavoro, Serena con le sortite in tivù, con l’acquisto di testi da promuovere per il cinema, Venus invece con la sua azienda di design di interni e con la Eleven che veste ormai da anni sul campo. Altre non ci sono più. Loro sono ancora in gioco.
Non rimasi colpito, allo stesso modo, dall’addio di Sampras, che come tanti considero il migliore che si possa chiedere in sorte. Vincere uno Slam dopo due anni che non si vince nemmeno il torneo sotto casa, e lì chiudere la propria, straordinaria vicenda sportiva. È la perfezione garantita dalla predestinazione, ma dite, esiste messaggio di sorta nell’improvviso prendere forma del Fato Benigno, sia pure agevolato dall’innata classe che si ha in dotazione? Mi colpisce invece Federer, perché non credevo che l’avvicinamento all’ultimo atto della sua vita sportiva registrasse valori così alti, per dimensione umana e persino intellettuale. Non c’entra la vittoria a Cincinnati… O meglio, c’entra nella misura in cui un articolo del genere, il giorno successivo a una bruciante sconfitta, sarebbe stato più difficile proporlo. E nemmeno c’entrano i numeri, ché quelli, in fondo, li aveva anche prima. C’entrano, invece, le scelte compiute, che sono tecniche in primis, e dunque motivate da valutazioni specifiche e attuali, ma che finiscono per riscrivere la vicenda del campione proponendosi come una naturale quadratura del cerchio.
Nel recuperare quel tennis dimenticato negli anni della maturità e delle vittorie, quel tennis che lo fece conoscere al mondo, era il 2002, il 2003, composto da mirabili scambi da fondo campo alternati a repentine discese a rete, e mai più giocato a partire dal 2004, Federer veste i panni di un artista che torni a prendere in considerazione le sue opere giovanili, per rivisitarle nei modi che oggi gli sono consentiti, con maggiore equilibrio misto a un trasporto ancora entusiasta. È Mirò che nel suo nuovo atelier parigino dà nuova linearità agli schizzi di 50 anni prima, uno addirittura promuovendolo a retro dell’opera rivista e corretta. È Goethe che dieci anni più tardi torna sul Wilhelm Meister, lasciato a impolverarsi fra le tante scartoffie. È McCartney che svuota i cassetti zeppi di appunti musicali registrati da lui stesso e dagli altri Beatles, per comporre il quadro finale del Sergente Pepper. È Manzoni che ripensa mille volte alla stesura dei suoi Promessi Sposi e dopo il Fermo e Lucia dà vita a una prima edizione nel 1827 (la “ventisettana”, per gli studiosi) per poi tornarci di nuovo tredici anni dopo, l’edizione ultima, la “quarantana”.
Non criticatemi per gli accostamenti evidentemente spericolati. Non c’è alcuna intenzione, da parte mia, di sostenere paragoni impropri. Solo di dare una collocazione più alta a quest’ultimo spicchio di tennis che Federer ci consente di ammirare. Vi sono ragioni tecniche, e bene ha fatto Edberg a suggerirgliele: accorciare gli scambi allunga la vita. Ma vi sono anche ragioni personali. Federer ha scelto di recuperare se stesso, di riscrivere il capitolo mancante. E non manca una buona dose di autocritica, se è vero che avrebbe potuto farlo prima. Comunque sia è una scelta umana. Permettetemi dunque di supporre che in essa prenda forma un progetto artistico. Capita, talvolta, di vederlo giocare e avere simili pensieri.
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