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Wimbledon, Petra Kvitova e quel dominio mancato (almeno per ora…)

Dal nostro inviato a Londra, Luigi Ansaloni

“Quando Serena serve al suo meglio, puoi tentare di rispondere al suo servizio. Quando la Kvitova serve al suo top, puoi solo guardare la palla”. Era il 2012 e Marion Bartoli dimostrò ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di essere un’acuta ed intelligente osservatrice del gioco altrui, aiutata dla fatto di essere stata travola a Montreal in finale 6-1 6-1. Qualche mese prima la Kvitova si esibì in quello che fino ad oggi era il suo primo grande successo, la vittoria di Wimbledon dove in finale schiacciò senza troppi problemi Maria Sharapova. La russa, come suggeriva la Bartoli, in quell’occasione guardò la palla praticamente per tutta la partita.

E lo fecero anche le altre avversarie fino all’Australian Open del 2012, nel torneo che doveva essere la consacrazione a nuova numero uno del mondo di Petra, che aveva chiuso il 2011 vincendo i Wta Championships e con il tetto del mondo, allora di proprietà della Wozniacki, a soli 19 punti. Quel numero uno non arrivò mai, e ancora continua a mancare. In mezzo sono successe tante, troppe cose. Semplicemente, la Kvitova è stata vittima di sè stessa, della sua incostanza, della sua follia tennistica. Una giocatrice fenomenale, capace di giocare in modo devastante alle 14.09 e non capire più cosa stia facendo alle 14.11. Troppo umorale, poco carattere, vittima del suo gioco, estremamente rischioso e inconcludente quando “gira male”, e in questi tre anni a Petra ha girato male davvero molto spesso. Era uscita dalle prime 10, adesso lunedì sarà numero quattro del mondo, con un altro Wimbledon in saccoccia.

La Kvitova ha 24 anni, ha ancora tutto il tempo per mantenere le promesse e diventare quello che tutti pronosticavano per lei fino a qualche tempo fa: l’assoluta dominatrice del tennis femminile, la vera e unica erede di Serena Williams. Nel gioco, le due, per certi versi si somigliano: potenza allo stato puro. Quando sono “on fire”, sono semplicemente ingiocabili. Uragani, tempeste nel vero senso della parola. La ceca è ancora più annichilente a volte, cosa dovuta agli angoli mancini e ad una mano che quando sale a rete è ancora più delicata. Poi, certo, Serena è molto più costante, riesce a mantenere il livello massimo per molto più tempo. Ma nel circuito Wta nessuno dà quella sensazione di pesantezza come la Kvitova in giornata. In giornata, appunto, e sottolineamo in giornata. Il punto è di Serena Williams ti fidi, tranne quando è presa da faccende personali. Di Petra, invece, ti aspetti sempre il peggio, anche se in quel momento sta giocando benissimo.

In giornate come questa finale di Wimbledon, però, assistendo ad una sua partita ti rimane addosso una sensazione fisica difficilmente spiegabile. In certi momenti lo spettatore era davvero travolto quasi e più della Bouchard, che pure era in campo. Sembrava uno di quei racconti di pugilato vecchio stile, quando uno dei due contendenti era così nettamente inferiore all’altro che provavi dolore fisico per lui anche attraverso la televisione. Senza volere esagerare, oggi nelle risposte e nelle accelerazioni della ceca c’era quasi orrore. Orrore nei suoi colpi, nel senso di dominio assoluto. La Bouchard avrebbe potuto usare perfettamente le parole di Chuck Wepner, spazzato via nel ’70 da quel gran pugile che era Sonny Liston: «Ha un pugno tremendo. Mi ha chiuso un occhio, rotto il naso, lo zigomo sinistro, mi hanno ricucito con 72 punti e tenuto il ghiaccio addosso per due giorni interi. Ero in stato di shock. Mentre venivo sbattuto qua e là pensai: si stancherà di farmi a pezzi». Ecco, trasportate tutto questo al tennis e alla finale di Wimbledon 2014, e avrete avuto un’idea.

Luigi Ansaloni

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