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Wimbledon: Federer, sali e scendi sulla scala della divinità

TENNIS – WIMBLEDON – DAL NOSTRO INVIATO A LONDRA, LUIGI ANSALONI – Dodici mesi fa usciva dal campo Centrale con una borsa bianca in spalla, salutando tutti con sguardo basso, ora è di nuovo lì, pronto a giocarsi la nona finale nel tempio del tennis, casa sua. A incastonare un nuovo tassello del percorso umano di Roger Federer. Perché lo svizzero, per essere un giocatore divino, è anche un grandissimo uomo che non smette di mettersi in discussione.

Dodici mesi fa usciva dal campo Centrale con una borsa bianca in spalla, salutando tutti con sguardo basso, tra le lacrime di chi c’era. Metaforicamente, eravamo tutti al suo capezzale, pronti a rendere omaggio. Nella conferenza stampa del post match contro Stavhovsky eravamo tutti lì ad attendere l’annuncio serale, la sentenza, che non è arrivata. Avevamo già scritto, nella nostra mente e nei nostri computer, coccodrilli in abbondanza, per celebrare le gesta di chi non c’era più. Lo avevamo preso quasi in giro, nei mesi successivi, per un’ostinazione che sembrava tenera ma a tratti patetica. Persino i suoi tifosi, i suoi adoranti tifosi, si stavano ribellando. “Roger, basta così, è inutile”, si sentiva da più parti. E c’erano i sorrisini della gente, di scherno, le pacche sulle spalle dopo le sconfitte subite da pincopallino qualsiasi, gente che in altri tempi nemmeno avrebbe avuto l’onore di scendere in campo contro di lui. La schiena, la maledetta schiena a pezzi che non funzionava, il cambio di allenatore, l’addio ad Annacone e l’avvento di Edberg. Quei tentativi di tornare ad un certo livello visti da tutti con fastidio, con tenerezza (ancora), con lo sguardo di chi prova pena verso colui che non si vuole arrendere all’evidenza.

Tante volte Roger Federer è stato paragonato ad una sorta di Dio in terra, su un campo da gioco. L’essere che più si avvicinava alla Divinità, l’unico che suscitava pensieri extraterreni, eterei. Quello che tutti, anche chi vi scrive, abbiamo dimenticato spesso e volentieri è che Roger Federer è un uomo. Un grande uomo. Uno che tante volte è caduto e si è rialzato. Risorto, certo, nel vero senso della parola. Ma la storia di questi ultimi dodici mesi dello svizzero è quanto di più umano possa esistere. Un esempio, nel vero senso della parola. Perchè questa nona finale di Wimbledon non è frutto solo del suo straordinario e unico talento, di quel bagaglio incredibile che Madre Natura gli ha donato, ma è soprattutto frutto di un lavoro francamente assurdo, questo si commovente. A 32 anni, dopo aver vinto tutto quello che un tennista non solo vuole, ma nemmeno immagina ad inizio della carriera, superando tutti i sogni della sua vita possibili e immaginabili, si è messo lì, rivoluzionando tutto ancora una volta per dimostrare non solo di non essere finito, ma di poter ancora vincere qualcosa di importante. E cosa c’è più importante di Wimbledon? Nessuno sa come finirà domenica contro Novak Djokovic, nessuno può saperlo. Nemmeno Roger o Nole. Ma il fatto stesso di essere ancora là, un anno dopo il suo quasi funerale, è un evento, una storia straordinaria.

E’ straordinaria perchè molte volte hanno considerato Federer uno straordinario campione, certo, ma un giocatore freddo. Un errore di considerazione clamoroso. E’ vero, Federer è cambiato moltissimo dagli inizi della sua carriera. Ha dovuto raffreddare il suo caldo cuore e mettere la testa a disposizione del suo incredibile braccio, del suo straordinario polso. Per questo, solo per questo, ha dovuto inventarsi e sembrare un cinico calcolatore, quando non solo non lo è, ma è forse la cosa più distante che possa esistere da come Federer è veramente. E com’è veramente lo ha dimostrato in quest’ultimo anno. Umano, troppo umano, infinitamente umano.

La storia 2013-2014 di Federer è da prendere come esempio per tutti noi. Per quelli che si vogliono arrendere, per quelli che credono di non farcela, per chi crede di essere arrivato. Il tennista era come Mohammad Alì, si è trasformato in Rocky Balboa. Si è messo a lavorare, ha messo tutto quello che aveva, anche se in certi casi non era abbastanza, non è stato abbastanza, ed è riuscito a tornare dove voleva. Ha fatto quello che nessun altro avrebbe fatto, si è comportato da persona a cui Madre Natura non aveva regalato niente. Era un Achille, è diventato un uomo per poi tornare Achille. Nel momento più importante, a Wimbledon, nel suo regno. Un uomo, anche se Divino, a cui non si può che fare un lungo, lunghissimo applauso. E se sarà l’ultimo, questa volta davvero non importerà niente a nessuno.

 

 

 

Luigi Ansaloni

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Luigi Ansaloni

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