TENNIS – WIMBLEDON – Di ROSSANA CAPOBIANCO – Del perché Federer è un campione diverso da tutti gli altri, di come ha fatto a durare così a lungo, delle difficoltà che avranno i suoi avversari a imitare un esempio del genere, di quell’unica perfetta lacrima scesa ieri e nascosta alle sue bambine.
Ci sono le lacrime di Novak Djokovic, giustamente emozionato e commosso dopo la sua seconda vittoria a Wimbledon che ha rischiato di sfumare malgrado una grande prestazione. Sono lì, davanti a tutti, sincere e belle, di gioia. E poi, dietro e in disparte, mentre le bambine non possono vedere, ce n’è una sola che scende sulla guancia destra di un trentatreenne che a piangere è abituato ma che in questa occasione era parso comunque sereno. Voleva essere sereno.
La saggezza e l’emotività fanno di Roger Federer un campione unico. Non è solo il suo talento a far innamorare la gente, è soprattutto questo suo alternare prove divine ad atteggiamenti umani. Questo suo essere esperienza ed emozione. L’orgoglio ed il cuore mostrati nell’ultima finale di Wimbledon sono qualcosa che raramente (se non mai) si è visto su un campo da tennis. Nessuna esaltazione, nessuna forza bruta mostrata, nessun trucchetto: solo la voglia feroce e una pallina che scorre veloce, più veloce ancora di una volontà di ferro. E quella sola lacrima sprecata in pubblico, poeticamente scesa come quel giorno a Parigi durante l’inno svizzero, è il contrasto che crea l’ammirazione. Il tifo, la visione di qualcosa che non è mai accaduta.
Quando pensi allo sport razionalmente, non ti capaciti mai di come una palla o una rete possano fare tanta differenza nella tua vita: se si riducesse però tutto al razionale, la nostra vita sarebbe la tristezza più assoluta, il vuoto più tetro, una tavola piatta mai scossa da niente. Ed è come erroneamente è stato visto e giudicato Roger Federer negli anni del suo dominio quando anche dopo tre set a zero facili in finale piangeva lacrime invisibili e disegnava sul proprio viso maschere non colte dai distratti. Volutamente o meno.
Roger che ha dovuto violentare per anni le proprie intime debolezze e che lotta come un dannato, da falso fighetto qual è, per essere sempre competitivo, anche con i più giovani fenomeni. Che ha attraversato tre generazioni, si appresta ad affrontare la quarta ma che rimane, ancora, numero tre del mondo. Che la motivazione va a cercarsela in una frase di un fan, in un allenatore prima solo idolo, in quattro o cinque ore di allenamento al giorno in off-season. In quattro figli, splendidi, da portarsi dietro e godersi mentre crea la sua arte e continua la sua carriera.
Tra le lacrime, Novak Djokovic ha ringraziato l’avversario per essere “un esempio”. Era sincero, non poteva che esserlo, ha provato sulla propria pelle cosa questo significhi. Non è detto che Federer riesca ancora a vincere uno Slam, prima del ritiro (comunque non vicino: a proposito, chi ancora gli suggerisce di ritirarsi?); ma la strada l’ha segnata e l’ha indicata a tutti, più adesso di quando per lui le cose erano facili, naturali. Ha ridefinito il concetto di leggenda, coniugando classe, efficacia, lavoro, atteggiamento. Non sarà facile stargli dietro. Forse non sarà nemmeno possibile.
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