TENNIS – Dal nostro inviato a Wimbledon Diego Barbiani
Il primo giorno della mia vita a Wimbledon per seguire le gesta dei di tennisti, scoprire la magia del posto e conoscere le abitudini che caratterizzano un torneo dello Slam. Wimbledon colpisce, rapisce, attrae l’appassionato come una calamita.
Anzitutto, però, il viaggio. Ho passato un’odissea che neppure Ulisse di ritorno ad Itaca dalla guerra di Troia poteva immaginare. “Che poi Rimini non è troppo distante, c’è chi come il buon Enzo Cherici arriva dal Mali!” pensavo. Eppure ci sono volute ben dodici ore tra macchina, aereo, treno, pullman e metropolitana. Ma l’apice si è toccato nella Tube inglese, quando è giunta notizia dall’altoparlante che il tratto che collega Earl’s Court a Southfield era chiuso per lavori. Come se non bastasse l’autobus messo a disposizione per completare il percorso si è rotto a poche fermate dall’arrivo e quello sostitutivo del sostitutivo ha allungato il giro di almeno venti minuti prima di terminare la corsa a due chilometri di distanza dal complesso.
Tutta questa fatica però svanisce nel momento in cui si varcano i cancelli. Paesaggi pittoreschi ed un rispetto del pubblico che è difficilmente comprensibile se non si è sul posto. I giocatori sui campi secondari circondati da tre file di spettatori. Nessuno che parli, nessuno che si azzardi a chiamare l’amico accanto per commenti o discussioni. File ordinate, zero resse. Durante Saville-Thiem ci saranno state oltre cento persone ai due lati del campo, tra cui un nutrito gruppo di australiani capitanati da Toni Roche, che ha assistito ad un match davvero bello ed intenso senza mai scomporsi più di tanto. Si sentiva distintamente ogni minima parola dei giocatori, anche quelle appena sospirate. Anche questo fa parte della magia del posto.
Ed in tutto ciò c’è chi è passato agli onori della cronaca: Ernests Gulbis. Spedito sul campo 19, lontano dalle telecamere, il lettone ha vinto una partita molto equilibrata contro l’estone Zopp ma è sul finire del terzo set che è uscito fuori tutto il suo “io”.
Nel tie-break del terzo set sul 3-1 prima ha colpito in pieno il giudice di linea con una prima di servizio. «Stai bene? Stai bene? – poi rivolgendosi all’arbitro – spero stia bene, non vorrei mi dessi il warning, voglio assicurarmi per lui, sono premuroso, lo vedi?». Poi su una prima di servizio l’arbitro ha chiamato la palla fuori e lui, in maniera scherzosa: «Certo che devi avere due palle d’acciaio per chiamarla fuori, bravo!». Poi ha giocato un ace di seconda, e di cosa vogliamo discutere?
In sala stampa si è sancita la sua vittoria su tutti gli altri protagonisti di giornata. Alla domanda se fosse d’accordo o meno con le dichiarazioni di McEnroe sul voler abolire l’arbitro, Gulbis è caduto in un fraintendimento piuttosto divertente: in inglese il giudice di sedia è detto “chair-umpire”, più comunemente “umpire”, lettone ha capito “vampire” (vampiro) inteso come il giocatore che succhia energie al proprio avversario. Dopo aver esposto la sua idea, argomentandola con discreta sicurezza, il giornalista gli ha chiesto se fosse dunque d’accordo che i giocatori si prendessero la responsabilità di giudicare ogni palla buona o meno è venuto fuori tutto. «Ah intendevi l’arbitro? Oh mio Dio! Ho frainteso tutto!» sottolineato da una grande risata.
Ci avreste poi scommesso su di lui come grande intenditore d’arte? No? Beh, a quanto dice Victoria Azarenka «è molto intelligente, mi ha insegnato tanto sugli impressionisti». Chapeau.
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