TENNIS – ROLAND GARROS – DI RICCARDO NUZIALE – Il sogno parigino e quello di completare il Career Grand Slam sono ancora una volta sfuggiti al campione serbo. Che nei major sta perdendo troppo, soprattutto nelle finali: cinque ko nelle ultime sei giocate. Mentre nei Masters 1000 vola. Come mai questo dislivello di rendimento? Forse per il nemico più antico e irriducibile di ogni sportivo: la testa.
Appena i fischi – stupidi, deprecabili, ingiusti – a salutare l’errato lancio di palla di Novak Djokovic si sono dissipati, l’odore del doppio fallo del serbo si è propagato fortissimo. E appena il doppio errore sul 4-5 30-40 nel quarto set si è materializzato, consegnando a Rafael Nadal il nono Roland Garros in carriera, il quinto consecutivo (in entrambi i casi è record), i più importanti account tennistici Twitter hanno fatto gara a ricordare per primi come il serbo avesse inflitto al proprio sogno di gloria la stessa eutanasia, nella finale 2012 dello Slam parigino.
Novak Djokovic, lo grande sconfitto, ancora una volta. E lo sta diventando troppe volte. Oggi in particolare sembrava poter davvero ambire all’impresa: dopo un primo set vinto con relativa comodità pur non giocando un tennis proibitivo, dopo il titolo di Roma, dopo aver vinto gli ultimi quattro scontri diretti contro Nadal, che nei numerosi gratuiti di dritto oggi palesava evidente difficoltà a contenere la tensione, conscio di non avere l’inerzia dalla propria. Poi tutto si è sfaldato sotto il Sole, cedendo progressivamente alle proprie difficoltà atletiche, al peso di un trofeo che si rifiuta di essere suo, a gratuiti che non avrebbe dovuto commettere per far partita contro la carneficina fatta tennis, che difatti, come nel quarto di finale contro Ferrer, una volta tirato un sospiro di sollievo ha giocato sempre più rilassato, con le devastanti conseguenze.
Ma il problema non risiede in un presunto (inesistente) complesso d’inferiorità di Djokovic nei confronti di un Nadal che anche oggi non è comunque parso quello dei giorni migliori, ma che come al solito ha tiranneggiato con quella dittatura atletica che da dieci anni pone decine di muri tra lui e chiunque altro. È limitante far risedere il problema nello stesso vistosissimo calo fisico che Nole ha vissuto dopo neanche due set (troppa poca benzina per poter sperare di superare Nadal, soprattutto sullo Chatrier).
No, c’è qualcosa di più. Djokovic sta perdendo troppo a livello Slam. Non vince uno Slam dagli Australian Open 2013, non vince un major fuori dalla Rod Laver Arena dal 2011 (unica annata in cui ci è riuscito), ha perso cinque delle ultime sei finali major, non batte Nadal in uno Slam dalla celeberrima finale australiana del 2012 (dopodiché, quattro sconfitte).
Il che è ancora più impressionante se lo si controbilancia con il suo rendimento nei Masters 1000, dove ha vinto le ultime sette finali giocate (tre delle quali contro Nadal). Quest’anno ne ha vinti tre su quattro giocati (ha saltato Madrid), perdendo solo la semifinale di Montecarlo con Federer. Nelle ultime due edizioni del Masters ha padroneggiato.
È chiaro quindi che vi è qualcosa mal funzionante in Djokovic, durante le otto settimane major annuali. Mal funzionante per un campione come lui, che non può accontentarsi dei piatti del finalista, dei piazzamenti. Un sei volte campione Slam non può accettare tutto ciò. La classica linea di demarcazione tra tennis 2 su 3 e quello 3 su 5? Certo, questo influisce, soprattutto quando ci si trova di fronte l’avversario le cui risorse energetiche sono da molte lune mistero glorioso. Ma non può essere tutto.
Oggi, fatta eccezione per una sanguinosa tendenza al contropiede sul dritto di Nadal (che giustamente non si è fatto pregare a pugnalare lungolinea), Nole non ha sbagliato tattica, non ha sbagliato il modo di vedere la partita. La risposta, solitamente sua arma letale, l’ha però spesso abbandonato, lasciando allo spagnolo eccessiva possibilità di comandare. Così il servizio, che nelle fasi delicate non è stato incisivo.
Ma ancora non è sufficiente a spiegare né la sconfitta di oggi, né le delusioni Slam dell’ultimo anno. Non è nell’oasi tecnica che bisogna cercare le difficoltà di Djokovic, che rimane campione tra i più completi. Il grande, tragico punto nero del serbo è sempre lei, la testa. Che gli impedisce di tenere quel livello che lo rende per tratti più o meno lunghi il giocatore attualmente più forte del mondo.
Che sia Nadal, Gulbis o chicchessia, il serbo nel corso delle sue partite non di rado è suo malgrado costretto ad affrontare se stesso, vuoti incolmabili per diversi minuti, talvolta di più. E se il più delle volte questi autentici blackout non sono sufficienti a compromettere l’andamento dell’incontro, contro i migliori e contro i giocatori baciati da momentanea divinità (vedi Wawrinka), diventano determinanti. Il tennis, lo si è detto innumerevoli volte, è un gioco di scatole cinesi, di continue porte che aprono o chiudono svariate possibilità, a seconda dell’esito di determinati punti. E nei tornei dello Slam ultimamente Djokovic si trova a un certo punto tra porte chiuse. Nel giudicare la prestazione odierna, il serbo ha affermato che Nadal è stato migliore nei momenti cruciali. O forse è stato lui ad essere peggiore, in tali momenti: negli scontri contro Rafa questo non è ammesso.
La discontinuità, la classica nemica di ogni sportivo. Che in Nole diventa nemica insospettabile, per lui che sembra estremamente sicuro in campo e fuori, ma che invece deve più volte avere a che fare con la ribellione della propria intelligenza e sensibilità. Come Federer e Murray, Nole deve guardare negli occhi le proprie ferite. Ma non è oggi che la forma di Djokovic personaggio sopravvalutato e persona sottovalutata si è rivelata.
A Wimbledon, torneo dove Nadal a parte forse fatica ancor più che a Parigi, è chiamato a una (ri)scossa. Dovesse riuscirci, sarebbe una sorpresa? Forse. E’ probabile che il cemento americano sia medicina più consona.
In appendice, l’ennesima constatazione di un tennis maschile che, nonostante luci cubitali d’entusiasmo, è sempre più fermo e incapace di dare spettacolo, aria di novità, varietà. Anche quella di oggi stata una partita dal mediocrissimo contenuto tennistico, persino priva di quella “epicità” che aveva quantomeno contraddistinto diversi scontri tra i due padroni del tennis maschile contemporaneo. Un tennis maschile che a forza di scagliare luci, ottiene il solo risultato di accecare, lasciandoci nel deserto dell’horror vacui.
Il torneo appena chiuso non ha fatto che rispecchiare la finale, così come Sharapova-Halep ha fatto con quello femminile: nomi nuovi, personalità vere, qualità. Se qualcosa non cambia (e non si vede come, a breve termine), il futuro del tennis è destinato ad essere tutto rosa.
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