TENNIS – Di ROSSANA CAPOBIANCO – Quante critiche e quante insofferenze negli ultimi anni verso la Coppa Davis: molte assenze, poco adatta ai ritmi moderni del tennis. C’è però un’altra competizione che permette di vedere quanto di insolito ed emozionante si vede in Davis? Non sottovalutiamo la tradizione.
Show your colors. E’ quanto dice lo spot della Davis Cup. Te lo propinano via “hashtag”, sugli schermi, nelle pubblicità, nella sigla con la musica epica e leggendari giocatori che cadono a terra emozionati e devastati da una vittoria che il loro corpo non riesce a contenere.
Mostra i tuoi colori perché nel tennis c’è solo un’occasione per farlo: la Coppa Davis.
Bistrattata e colpevole secondo molti di avere una formula antica e non adatta ai ritmi moderni di uno sport sempre più atletico e impegnativo, che spesso vede forfait illustri a causa di questo ma che dalla sua ha un aspetto imprescindibile: la tradizione.
Quella che permette all’appassionato di identificarsi, di ricordare, di legare aneddoti a personaggi, momenti della propria vita a partite memorabili, a vivere nella nostalgia di qualcosa che non tornerà, ma avere qualcosa che te lo riporta alla mente da guardare. A questo serve la tradizione e di questo lo sport e il tennis non possono fare a meno. Per questo la Coppa Davis, malgrado le falle e la vetusta attitudine, riscuote ancora tanto successo; bastava guardare il pubblico di Napoli, sorpreso ed estasiato da un Fabio Fognini fomentato e spinto a dare il 100% contro uno come Andy Murray, che fa la partita della vita e scorda i suoi vizi, i suoi umori, i suoi difetti che sono l’altra faccia della medaglia del suo tennis. Che vomitava e tossiva tra un cambio campo e un altro ma quella vittoria non l’avrebbe sacrificata per nulla al mondo.
Bastava essere a Ginevra, per rimanere a bocca aperta di fronte ad un pubblico che giureresti neutrale e sereno e scopri invece caldissimo, quanto gli argentini in casa loro. Stesso fervore, tra i campanacci immancabili, il folklore sugli spalti, il tifo comunque. Sempre e comunque, un’onda rossa che segue i propri beniamini che sono forti, fortissimi. E loro lo sanno.
Ci ha messo un po’ Roger Federer a convincersi di cedere alla tradizione della Coppa Davis intesa come impegno continuo di un anno, e forse la prima giornata e Wawrinka che fatica a gestire la pressione da nuovo numero tre del mondo in casa hanno spiegato il perché.
La tensione negli occhi di Roger era evidente, fin dal primo giorno, fin dalle prime conferenze stampa.
L’amore del suo pubblico però lo ha ripagato di sforzi fisici ed emotivi: mai visto così grintoso, così rumoroso, attaccato ad ogni punto e determinato a chiudere (per la prima volta) un quarto di finale che potrebbe proiettare la Svizzera verso un traguardo storico e che intanto la riporta in semifinale dopo undici anni di attesa. A proposito di Davis, Federer non ha mai dimenticato quella partita contro Hewitt in Australia nella quale era avanti di due set e si fece rimontare, dopo la quale pianse e che vide un sogno sfumare fino a fargli chiudere quelle speranze per tanto tempo.
E i “secondi”, la possibilità dei giocatori di categoria inferiore di fare la differenza e di ritagliarsi un posto nella storia del tennis che sì, rimane uno sport individuale ma che vive quest’eccezione patriottica con estrema emotività.
Forse arriverà il momento in cui tutto cambierà, in cui le esigenze non saranno più rimandabili, in cui la tradizione perderà e anche i giocatori cederanno e voteranno per un “Mundialito”, qualcosa che non influisca troppo sugli altri impegni. Intanto, fateci desiderare ancora di riconoscere quei momenti e vedere un campione tremare come mai ha fatto in carriera per l’emozione di mostrare i loro colori, per dire che a quella tradizione ormai appartiene anche lui. Insieme a tutti quelli che stanno sugli spalti.
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