TENNIS – Di Davide Bencini
MIAMI. Alla notizia del ritiro contemporaneo di Berdych e Nishikori prima delle semifinali del torneo di Miami è stato come se il web si fosse diviso in due parti. Quelli che ci sono rimasti di stucco e sono andati a vedere subito se una cosa del genere fosse mai successa in un torneo di questo livello, e quelli che semplicemente si sono messi a pensare che fosse una candid camera, essere finiti cioè su “Scherzi a parte”.
La finale tanto spesso agognata tra il numero uno e il numero due del tabellone alla fine è tornata a farla da padrone nel secondo Master 1000 dell’anno, ma la tanto assente (finora in questo strano 2014) “restaurazione” non è avvenuta propriamente nei canoni più consoni del gioco, quanto per una serie di circostanze che in Florida, come nelle ultime annate, hanno finito per rendere il torneo di Key Biscayne una manifestazione un po’… a metà.
Molti mal pensanti hanno giocato sugli infortuni manifestati dai “ritirandi” e ironizzato sulla “perdite” cronica di Mastro “Perdych” allorché dall’altro lato della rete venga avvistato Nadal, nonché sul possibile appagamento da “batti Federer e poi muori” di Nishikori (sullo stile di Stepanek a Roma 2008), il tutto senza pensare forse al tipo di tennis a cui oggi assistiamo, talmente influenzato dal lato fisico e atletico che basta un mal di pancia o un po’ di fatica il giorno prima a non farti mettere piede in campo.
In ogni caso, al di là di una forma o di una salute che appena appaiano deficitarie (specialmente se devi affrontare due cyborg) ti fanno optare per la bandiera bianca, quello a cui da anni ormai si assiste a Miami è la conseguenza di un problema ben più largo, del quale le “non semifinali” di questa settimana sono solo una conseguenza.
E’ un caso che Miami (un Master 1000 dei più importanti, non proprio il torneino di Compiobbi) sia diventato un punto interrogativo ogni anno nel calendario di vari giocatori, primo fra tutti Federer? E’ un caso che a Miami ogni anno si verifichino forfait e ritiri a frotte?
Evidentemente la colpa forse non è del “cagotto” di Berdych o del fisico di Nishikori se per esempio Djokovic arriva in finale giocando 3 partite sole usufruendo di un bye e due walkover.
In un tennis come quello odierno, giocato al massimo e col piede perennemente a tavoletta, pare ormai chiaro a molti che due tornei da 10 giorni e con tabelloni da 128 giocatori (certo, con bye inclusi diventano 96) consecutivi sono diventati un’esagerazione.
Se poi si considera la crescita incredibile che ha avuto il torneo di Indian Wells grazie ai soldi investiti da Larry Ellison, il torneo di Miami non può che farne le spese peggiori, essendone praticamente a ridosso. Il risultato sotto gli occhi di tutti è che, in maniera quasi ovvia, a Indian Wells ci vanno tutti, a Miami no, e che quelli che ci vanno non è che proprio si dannino l’anima per arrivare in fondo.
Da tempo si parla anche di un ampliamento dell’impianto di Miami che va a rilento, in confronto a quello in California che cresce in maniera molto più veloce. Ma la sensazione resta quella che, per tutti gli ampliamenti che potranno essere fatti, Miami finché resterà così attaccato a Indian Wells dovrà, a meno di grosse sorprese, sorbirsi il carico del fratellino zoppo, quello che si prende gli avanzi del fratello maggiore che ha succhiato la polpa prima di lui. E poco importa se la finale sia tutto tranne un “avanzo”, se poi le affluenze crollano o gli spettatori vengono mandati a casa con un “ci dispiace, sarà per l’anno prossimo”.
Altra scoperta dell’acqua calda poi è il fatto che questi due tornei arrivino in una parte della stagione che non prepara ad alcuno slam, come del resto è sempre stato: in particolare Miami di conseguenza, agli sgoccioli della prima parte di calendario sul duro, con giocatori che già pensano o al fine settimana successivo in Davis o a una faticosa stagione sul rosso alle porte che neanche un pazzo vorrebbe compromettere per una partita in più giocata in non perfette condizioni fisiche, subisce senza colpo ferire.
E alla fine forse la circostanza che in finale arrivino Djokovic e Nadal risulta quasi non una dimostrazione di risalto, quanto la più logica e semplice conseguenza.
Di sicuro il colpo di quest’anno sarà molto duro da digerire per l’organizzazione di Crandon Park, ma le soluzioni non è che siano poi molte. Spostare il calendario avrebbe conseguenze traumatiche per un impianto quasi da grande slam come quello di Miami. Per non parlare del come farlo, in un calendario fitto di eventi ognuno con i propri interessi da difendere. Cambiare la superficie per dare uno smalto diverso al torneo? Non cambierebbe comunque il fatto che ci arriverebbero giocatori con la spia della benzina accesa dopo la prima parte di stagione.
La sensazione è che l’anno prossimo saremo daccapo, a chiederci se Federer andrà a Miami, se il finalista o semifinalista di turno che ha appena fatto l’exploit a Indian Wells entrerà cotto in campo o se quel giocatore o quell’altro avrà già la testa sull’aereo di ritorno per andare a preparare la Davis.
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