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Fognini, Nadal e i "complimenti" nel tennis italiano

Alla fine ogni sportivo lo sa benissimo: le pacche sulle spalle non sono niente. Non servono a niente. Possono confortare per una frazione di secondo, giusto il tempo di sentire il palmo della mano sulla tua pelle, ma poi basta guardare il volto di chi compie quel gesto per rendersi conto che il significato non è esattamente quello che vorresti. Perché dietro non c’è il dolce della vittoria, ma l’amaro della sconfitta. E nonostante tutte le belle parole che si sprecano, tutti sappiamo che nello sport quello che conta alla fine è salire più in alto possibile.

Proprio per questo, alla fine della giostra, la sconfitta di Fabio Fognini contro Rafael Nadal non è né una mezza vittoria né un altro passo in avanti verso la maturazione completa del ligure. E’ quello che è: un’eliminazione ai quarti di finale in un torneo. Ha giocato bene Fognini? Assolutamente. E’ stato forse l’unico quest’anno a mettere sul serio alle corde e a far vedere come si gioca a tennis al mancino di Manacor? Probabilmente si. Ma alla fine di tutto, ci ha perso sempre. Senza discussioni. Nadal va avanti, Fognini va a casa. A Pechino, come al Roland Garros. Dunque, perché tanti complimenti? Perché il tifoso italiano, l’addetto dei lavori italiani, il giornalista italiano o qualsiasi italiano si è sentito in dovere di sottolineare quanto sia andato vicino Fognini a battere Nadal, facendogli tutti i complimenti possibili e immaginabili del caso (che al limite ci potrebbero pure stare, attenzione), ma nessuno, dico nessuno, ha sottolineato invece il fatto che la vittoria era veramente vicina e che Fabio l’ha veramente buttata via? Perché di questo si è trattato: di un successo buttato via. Semplice e chiaro.

 I complimenti, ad un certo punto, e questo bisogna capirlo, non fanno del bene ad uno sportivo. Se continuano, se continuamo a dire,   “peccato ma bravo”, in queste occasioni, non facciamo un buon lavoro per i Fognini, per i Seppi, e temo più avanti nemmeno per i Quinzi. Lasciando perdere lo spirito nazionalistico e gli indubbi miglioramenti dei tennisti citati qui sopra, il lavoro di un osservatore dovrebbe essere quello di essere più obiettivo possibile. E soprattutto: sottolineare le cose che non vanno. E il tennis italiano degli ultimi anni è strapieno di occasioni mancate, ma questo particolare viene poco, molto poco, messo in luce. Tutti noi non stiamo facendo il bene dello sport della racchetta tricolore.  E oggi, con Fognini, c’è stata l’ennesima dimostrazione.

 Fabio, e tutti noi, dovremmo essere neri, arrabbiati, delusi, per non aver mandato a casa lo spagnolo, di non averlo sconfitto, di non aver acchiappato al volo l’occasione. E invece no: ci sentiamo soddisfatti e quasi sazi. Ogni volta è come se strappassimo un invito a cena a Blake Lively e poi, al momento buono, metterla su un taxi e mandarla a casa senza nemmeno averla baciata. Dopotutto, l’invito a cena l’abbiamo conquistato no? Bene, basta così. Ha un senso? Per chi vi scrive in questo momento, no.

 Era successa la stessa cosa lo scorso anno, quando Seppi era andato avanti di due set al Roland Garros contro Djokovic. Si era fatto rimontare e alla fine aveva perso, Andreas. Invece di dire “Hai perso con due set di vantaggio”, si è scritto “Bravissimo ad andare due set avanti, poi ha combattuto ma ha perso. Bene così, bravo”. Una cosa assurda, che tendenzialmente non significa niente. Solo parole, solo forma, patafisica bella e buona.

 A volte il tennis azzurro mi ricorda il rugby azzurro. Quello che al Sei Nazioni perde 8 partite su 10, ma che “dimostra sempre coraggio, determinazione, grinta”. Quello che è sempre preso come esempio per gli altri sport, ma alla fine non si porta a casa i trofei, ma i cucchiai di legno. Quello che hai mondiali becca 101 a 0 dalla Nuova Zelanda ed invece di leggere “ammazza che figura di m…”, si dice “Beh però gli Alla Blacks sono più forti, va bene così”. Il che sarà pure vero, ma è sport o forma? In questo, incredibile a dirsi, nel calcio sono anni luce più avanti di noi. Forse c’è un eccesso di critica, addirittura, ma nel calcio a fine giornata la gente ti dice esattamente chi sei: un vincente o un perdente. Non esistono le vie di mezzo. Non esistono gli splendidi perdenti, gli sfortunati perdenti.  E forse, in fin dei conti, è meglio così.

Luigi Ansaloni

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