TENNIS – Di Diego Barbiani
E’ stata un po’ la linea guida seguita da chi trovava noioso il regno di Federer, il pensiero comune da utilizzare per sminuire quanto l’elvetico avesse ottenuto in giro per il mondo. “La generazione di Federer era più scarsa di quella che ne è seguita” con la conseguenza che i vari Roddick, Hewitt, Blake, Ferrero, Gonzalez, Nalbandian Haas e compagnia danzante fosse sempre tre spanne dietro a Roger. Verissimo. Soprattutto nel quadriennio 2004-2007. Ma la realtà è che Federer era ingiocabile, instoppabile, capace di portare a termine la stagione 2006 con 92 (novantadue) vittorie e 3 (tre) sconfitte. Numeri irreali, che neppure il Nadal del 2010 o il Djokovic 2011 sono riusciti ad eguagliare.
Gli avversari con cui Federer è cresciuto e si è formato non erano affatto scarsi. Erano tutti campioni, capaci di raggiungere le vette più alte della classifica, ma ognuno di loro nel suo piccolo avrà passato tanto tempo a maledire lo svizzero dopo ogni sconfitta. Alcuni di loro sono riusciti a raggiungere la vetta dell’ATP, alcuni hanno saputo imporsi in qualche prova Slam, ma è quasi superfluo dire che senza lo svizzero tra i piedi, la loro carriera sarebbe stata più gloriosa.
Da qualche anno i tornei migliori sono sempre ad appannaggio dei tre giocatori più resistenti alla fatica, oltre a Federer. Nadal, Djokovic e Murray per quanto non possano essere inclini all’estro ed alla spontaneità rappresentano esempi di forza fisica, che li porta a lottare su tutti i campi e su tutte le superfici anche fino alle sei ore di gioco (ma con la sensazione palpabile che anche se fossero state sette o otto la cosa non avrebbe sortito un effetto diverso). Poi però capita ancora di vedere un combattente come Hewitt che supera Del Potro dopo 4h di gioco, o Haas che alla soglia dei 35 anni annienta Djokovic a Miami, o Federer che seppur in un momento un po’ difficile rimane tra i giocatori più temuti e rispettati.
Era un piacere veder giocare la generazione di Federer perché non c’era spazio per il perbenismo attuale, anzi. Soprattutto con Hewitt in campo. Non che fosse più attraente una discussione piuttosto che il match in sé, però questo clima portava i giocatori a sfidarsi a tutto campo, con ogni colpo del loro repertorio. Come Safin al Roland Garros 2004 quandi vinse un punto contro Mantilla e per esultare si calò le braghe rivolto allo stesso spagnolo. O Nalbandian quando in occasione di una sfida contro lo stesso russo, in programma alle 10.00 del mattino, si lamentò con l’organizzazione con la frase “voi mi fate giocare all’orario in cui Safin va a dormire”. O proprio Hewitt che in occasione dello Slam di casa nel 2005 esultò in maniera talmente esagerata ad un errore di Chela che fu bersaglio di uno sputo dall’argentino al cambio di campo. Quello che può essere mancato a molti, Safin in primis, è la continuità di rendimento a lungo termine. Cosa non proprio di casa per uno che fu trovato alle 6 del mattino nel giorno della sua finale all’Australian Open seduto su una panchina accanto a Melbourne Park in compagnia di tre ragazze. Altrettanto celebre fu la frase dopo vittoria in Coppa Davis del 2006 “devo ancora vedere come festeggiare, perché i miei compagni di team sono tutti più professionali”. Nonostante questo però si facevano apprezzare perché in campo offrivano quasi sempre prestazioni di alto livello e non snaturavano la loro indole per risultare quasi perfetti. Erano così. Matti, sregolati, arroganti, signori, riservati, estrosi. Chi aveva un serivizio da fare i buchi sul terreno, chi un dritto al fulmicotone, chi un rovescio ad una mano tra i più ammirabili, chi sapeva cosa volesse dire andare a rete per giocare una volèe nei pressi della linea di fondo piuttosto che i tanti tocchi smorzati che si vedono ora.
Era agonismo e varietà, il tutto era miscelato in quello che realmente poteva intendersi come un confronto di stili, determinato anche da una situazione dei campi non così problematica come ora. Dove si può vedere un giocatore effettuare la stessa tattica sulla terra, sull’erba e sul cemento. Dove Serena Williams confessa di aver preparato la stagione sul cemento americano andando a giocare un torneo di basso profilo come quello svedese di Bastad perché, a suo dire, i campi in cemento sono così lenti che prepararli su terra non fa più differenza.
A riprova di ciò, basti vedere la longevità che hanno avuto: Federer (32 anni) è da quindici anni nel circuito eppure è stabilmente in top-10, uscito solo da poco dal lotto degli assoluti favoriti per la vittoria finale di ogni torneo ma ancora bello gagliardo ad esprimere un tennis che è sufficiente a far impazzire di gioia gli spettatori. Haas (35 anni) dopo periodi difficili a causa dei tanti malanni è rientrato in gran carriera ed è da qualche mese costantemente vicino alla top-10. Hewitt (32 anni) probabilmente ha più segni di interventi chirurgici che una cavia da laboratorio, con una placca installata nel piede che gioco forza ne limita i risultati, eppure da gran combattente qual è ieri notte ha superato il n.6 del mondo Del Potro. Stepanek (34 anni) lo scorso Dicembre ha regalato il punto della vittoria alla Repubblica Ceca in Coppa Davis contro la Spagna sconfiggendo Almagro. Una menzione anche per Karlovic (34 anni) che è rientrato a giocare dopo la meningite ed è tornato a trionfare in un torneo ATP a cinque anni di distanza dall’ultima volta. Infine Lujbicic, ritiratosi lo scorso anno ma protagonista di una delle più grandi sorprese a livello di Master1000 quando nel 2010 vinse ad Indian Wells sconfiggendo Djokovic, Nadal e Roddick.
Così questa sarebbe una generazione scarsa. Bene. Si prenda Hewitt e ora Murray. Quanti sono gli Slam al momento? E’ un paragone azzardato? Si prenda allora Djokovic e si tolgano gli Australian Open ottenuti dove ha sempre dimostrato la sua superiorità (o inferiorità degli avversari) finale 2012 a parte. Soddisfatti o incazzati? Sono numeri, però..
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