Rino l’ho conosciuto negli anni Settanta, mi invitò a cena nei giorni della mia prima trasferta da inviato a un evento di tennis. Fu il primo a farlo, e fu come dirmi che mi considerava ormai uno del gruppo. Gliene fui grato. Più tardi diventai il suo editore per il Tennis Book e per una serie di libelli statistici sui tennisti italiani del presente e del passato. Libri, mi spiegò come sempre diretto e incapace di accampare scuse, per i quali non trovava più un editore disposto a pubblicarli. Il perché lo capii dopo la prima uscita, appena settanta copie vendute, ma non esitai a portare fino in fondo l’impegno che avevo preso.

Glielo dovevo… Rino Tommasi, Salvatore all’anagrafe, o Tom Salvatori per chi lo leggeva sulle pagine de Il Tempo, e con lui Gianni Clerici insegnarono molto a noi giornalisti di quella nidiata,  che fu anche l’ultima a garantirsi spazi da inviato in un giornalismo che già allora, cinquant’anni fa, chiudeva rapidamente le porte alle spese “voluttuarie”, cioè tutte quelle che potevano trasformare una catena di montaggio delle notizie in un mestiere da sogno. Rino ci spinse a tenere in grande considerazione l‘uso dei termini più appropriati per descrivere il tennis, e la precisione dei risultati e dei riferimenti storici. Clerici ci fece sapere che gli articoli potevano cominciare in mille modi diversi, e più fossero stati in linea con la nostra personalità, più ne avrebbero garantito l’unicità.

Mille episodi mi passano per la capa, se penso a Rino, ora che se n’è andato. Ma i primi, e più lucidi nella mia memoria sono quelli che provo di seguito a raccontare…

A Parigi prendevamo la metropolitana assieme, eravamo vicini d’albergo, e più di una volta ho avuto l’impressione che Rino mi aspettasse, quand’ero in ritardo. Gli faceva piacere cominciare la giornata chiacchierando di tennis. Linea dieci, da Odeon a Porte d’Auteuil, quaranta minuti buoni e undici fermate che offrono una mappa un po’ scombiccherata ma non priva di grandeur della storia cittadina.

Si va dal teatro de l’Odeon, ribattezzato Teatro dell’Europa, di fianco al Senato, a un passo dai Jardins du Luxembourg, lungo il Boulevard de Saint Germain, verso le fermate di Sevres-Babylone – una stazione contesa tra due compagnie (quando la Municipalité le costrinse a mettersi d’accordo, una innalzò un grande cartello con Sevres in caratteri di scatola e Babylone praticamente invisibile, e l’altra fece esattamente il contrario) –, di Vaneau (Louis, uomo di scienza morto durante la rivoluzione del 1830, la cosiddetta seconda rivoluzione francese), di Duroc (Gérard Christophe Michel, generale dell’Impero), e si gira intorno all’Hotel des Invalides (dove riposano Napoleone e anche Duroc) per andare a Rue Grenelle, la zona “pariolina” della capitale francese, dove prese casa Serena Williams, che trovava salutare la mattina andare in giro per il quartiere in bicicletta a bisticciare con tutti i tassisti che incrociava. Ancora… Si attraversa la Senna a Javel-Citroen sede delle prime grandi fabbriche automobilistiche, e si raggiunge Porte d’Auteuil, dalla quale si entrava nel paese dei rivoluzionari del 5 maggio 1789. Vivevano tutti lì, prima che prendessero la città, il potere e anche casa al centro di Parigi.

La linea del tennis, la chiamano, perché è l’unica che si spinga fin quasi al Roland Garros, ricordato (l’aviatore, non l’impianto, anche se ormai sono quasi la stessa cosa) proprio nella stazione di Porte d’Auteuil. Dentro la metro trovi i bagarini che cercano di vendere gli ultimi biglietti, i tifosi con le bandiere e le magliette dei propri idoli, coach che accompagnano i partecipanti al torneo juniores.

Facevamo il percorso assieme, ovviamente chiacchierando di tennis, dei risultati del giorno prima. Gli prendevo la sedia, poi mi alzavo e lo facevo sedere, lui si mostrava scontroso ma accettava volentieri. Lo capivo. Non c’è uomo di una certa età che si trovi a proprio agio ballonzolando in piedi sulla metro. Ma lo capii ancora meglio quando – dopo aver visto che mi alzavo per lasciare la sedia a Rino – una giovane signorina fece lo stesso e mi offrì il suo posto. La ringraziai mestamente. «Da oggi credo di potermi considerare ufficialmente anziano», le dissi.

Ma Rino era uomo tutto d’un pezzo. Geniale, per certi aspetti. Ha dato vita a un nuovo modo di parlare di tennis (e di sport, dunque) in una cronaca televisiva. Lo fece con Clerici, certo, ma Gianni fu lui a volerlo, scelto in amicizia già sapendo che sarebbe stato il collega giusto al posto giusto. Soprattutto un uomo solido, Rino, immune dal tarlo dei dubbi, certo esclusivamente di ciò che aveva detto, stava dicendo e avrebbe detto. «Sono d’accordo con me stesso», buttava lì, quando era in vena.

Politicamente all’opposto rispetto alle mie idee, ma talmente permeato di buon senso sportivo da non aver mai avuto dubbi su razzismo, accoglienza, solidarietà. Eppure certo (al mille per cento, ci mancherebbe, uno come lui…) che solo con l’autorità di uno con le palle di caucciù si sarebbe raddrizzata la schiena agli italiani.

Si vantava di essere stato l’unico a dire a Berlusconi che non lo avrebbe mai votato, perché lo riteneva troppo a sinistra. Lo prendevo bonariamente in giro, «Rino, ti sposti sempre più a destra», gli dicevo, mentre lui annuiva pacifico, «ti auguro che la politica non abbia una forma rotonda, altrimenti tra poco ti ritrovo dall’altra parte, a Lotta Continua». Lui ghignava da un lato delle labbra, «eheh eh, so dove fermarmi, non temere», rispondeva, la voce chioccia. Tommasi a sinistra sarebbe stato come vivere in un Paese nel quale, svegliandosi una mattina ci si accorgesse che avevano cambiato di notte il senso della circolazione.

Ma il meglio lo dava al ristorante la sera e all’uscita della metropolitana di Porte d’Auteuil.

Cenare con Rino, era come connettersi a esperienze tipiche del misticismo per entrare nei misteri della fede. La sua ordinazione preferita era la Trinità: «Voglio un primo, un secondo e un dolce». Bene, rispondeva il cameriere, come primo abbiamo il nostro… «Non importa», implodeva Tommasi, «mi porti un primo, un secondo e un dolce, quelli che vuole lei».

All’uscita dal metro di Porte d’Auteuil, assumeva addirittura un aspetto marziale. Sbucava sempre dalla stessa porta, dallo stesso lato, con lo stesso piede, appena fuori sembrava quasi cercare le proprie impronte del giorno prima. Una volta gli chiesi se, per caso, gradisse prendere per il giardino dei poeti, per poi attraversare le serre liberty, così belle che emozionano, ed entrare dall’altra parte di rue Gordon Bennett, che oggi divide le due zone dell’impianto. «Sei matto?». Mi rispose quasi piccato. «Al Roland Garros si va di qua», abbaiò alzando il braccio a indicare la direzione, nella stessa posa del saluto al duce. «Tiriamo dritto,  seguimi». Mi incolonnai. Dopo un po’, sopra pensiero gli chiesi: «Ma non ti annoi mai, a fare tutti i giorni la stessa strada?».

Tornò ad abbaiarmi contro…

«Stai scherzando? È un fatto matematico. Ho misurato tutti i percorsi. Se passassi dall’altro lato della strada dovrei entrare dal cancello A, e sono 472 passi dall’uscita del metrò. Se impazzissi e prendessi la strada che hai detto tu, fra giardino e serre, i passi sarebbero 694», e si voltò per ribadire con un gesto la bestialità orribile che avevo proposto. «Questa strada permette di arrivare al cancello B, in 347 passi esatti, più altri 110 all’interno dell’impianto fino alla sala stampa, cui vanno sottratti però i 42 che sarei costretto a fare se passassi per il cancello A. In totale, 347 passi più 68, 415. Contro i 472 più 42, che fanno 514 del percorso alternativo. Novantanove passi in meno… Secondo te, Daniele, che cosa mi annoia di più?».

Conoscevo la risposta: «Passare per le serre».

«Esatto!».

Daniele Azzolini

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Daniele Azzolini
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