Il migliore anno della sua vita forse no, o non ancora, se mi attengo strettamente ai risultati del tennis, ché dell’universo mondo che lo riguardi non sono tenuto a sapere. Di sicuro, il miglior anno del nostro tennis, questo è certo, acclarato dal confronto di statistiche lontane e vicine, e di primattori del tutto diversi fra loro, tutti però con un’indole da campioni.
Tra questi Matteo Berrettini ci sta di casa, uguale e diverso da chi l’ha preceduto e tenuto in larga considerazione da chi condivide con lui le sorti attuali del nostro tennis. Uno che non è mai banale nelle sortite personali e agonistiche che hanno determinato fin qui una carriera che certo ha il rimpianto dei troppi infortuni, cui oppone però l’entusiasmo dei ritorni imperiosi, che sempre gli hanno restituito l’anima, ciancicata un bel po’ dai molteplici eventi contrari. Così poco ordinario e prevedibile, il nostro Matteo, che anche nel giorno della sua ritrovata vittoria a Gstaad, dove aveva esordito fra i vincitori nel Tour sei stagioni fa, sono talmente tante le cose che ci viene a dire e a ricordare, da andare ben oltre il valore dell’impresa compiuta. In fondo, si dirà, è “solo” un torneo della categoria “250”, la meno ricca del circuito, e se l’annotazione è a suo modo incontrovertibile, potreste stupirvi del patrimonio che reca con sé. Il nono torneo che Matteo incamera, che ne fa al pari di Fognini il terzo tennista più vincente del nostro tennis, sotto appena a Panatta (10 successi) e a Sinner, che invece è più lontano (14). Il novantaduesimo nella storia del nostro tennis, su 210 finali giocate. Il secondo titolo del 2024, vincitore anche a Marrakech, ma battuto a Stoccarda e nel challenger di Phoenix (proprio da Nuno Borges, vittorioso ieri su Nadal a Bastad), uno tra i più nobili eventi della categoria. Che gli vale il ritorno nei primi 50 della classifica, dai quali mancava dagli US Open dell’anno scorso. Un balzo di 104 posizioni in quattro mesi e mezzo, dato che il 3 marzo scorso, giorno del suo ritorno alle gare dopo uno stop di sei mesi buoni, la classifica segnava rosso e gli affidava uno strapuntino al numero 154. Ma sopra ogni altra cosa, il valore che il successo di Matteo (il settimo a tinte azzurre dell’anno) dona alla nostra comunità tennistica, e fa di questa stagione (in appena sette mesi di tornei, e con molto altro ancora da giocare) la migliore in assoluto per il nostro tennis in Era Open.
Gli anni da prendere in considerazione sono tre, il 1977 che prese slancio dai successi di Roma, Parigi e Coppa Davis dell’anno precedente, il 2021 ricco di vittorie e di finali, e il 2024 ancora in divenire. In ognuno di essi le vittorie sono sette, a otto non siamo mai giunti. A sei invece siamo arrivati altre tre volte, nel 1976, nel 2018 e nel 2022. Intanto, come si vede, l’apporto di quest’ultima parte del nostro tennis è decisamente il più ricco e vivace. Dal 2018 a oggi, in sette stagioni appena, le vittorie sono state 36 e le finali 56, che valgono rispettivamente il 34,78 per cento dei successi conquistati dal 1968 e il 26,66% delle finali giocate. Ma è il confronto fra i migliori anni del nostro tennis a dare spessore a questo 2024… Nel 1977 le sette vittorie azzurre giunsero da un “500” e da sei “250”, cui vanno aggiunte due finali “1000”, a Montecarlo (Barazzutti) e a Roma (Zugarelli). Nel 2021 due vittorie nei “500” e cinque nei “250”, ma anche sei finali, di cui tre decisamente importanti, a Wimbledon (Berrettini), a Miami (Sinner) e a Madrid (Berrettini). Quest’anno infine, giunti a sette vittorie grazie al successo di Matteo a Gstaad, possiamo vantarci di imprese quali la vittoria agli Open d’Australia (Sinner), nel “1000” di Miami (Sinner) e due “500”, ad Halle e Rotterdam (ancora Sinner), oltre a due finali tra le quali spicca il “500” di Musetti al Queen’s. E la qualità dei successi, fa la differenza.
A Matteo il compito, non da poco, di far quadrare i conti. E di farci sorridere una volta di più per come ha salutato il francese Quentin Halys, al quale si è avvicinato con un passo saltato degno dell’Albertone nazionale. Per le grandi imprese c’è sempre tempo, anche se lui le vuole più di prima, ora che sta riscoprendo il gusto di battersi ad armi pari con rivali di primo piano. Non Halys, giunto alla finale con altissimi meriti, da qualificato, ma sopraffatto dall’emozione e dalla potenza di fuoco di Berrettini. Piuttosto, Auger-Aliassime nei quarti, eliminato in due tie break, nel secondo dei quali è apparso distrutto da due set di tremendi spintoni mollati da Matteo. E subito dopo, Stefanos Tsitsipas in semifinale, cui il nostro è apparso superiore al di là del punteggio rimasto in bilico fino al break che ha chiuso il confronto. Contro il greco e poi in finale, Matteo si è cinto di statistiche a dir poco straordinarie, come il 93 per cento di primi servizi andati a segno firmato con Tsitsipas, sceso al 90% nella finale con Halys.
Matteo è dunque tornato… Quante volte l’ho scritto? Mi auguro che sia la volta buona, però, quella che introdurrà un lungo periodo privo di guai fisici. Serve un anno da Matteo, per tornare ai livelli più alti. «Mi piacerebbe davvero chiudere la stagione in Top 30, per giocare da testa di serie nei prossimi Australian Open», dice, sapendo che da qui alla fine dell’anno, avrà pochissimi punti da scartare. «C’è la stagione americana sul cemento, spero di avere buone risposte anche da quei tornei, dagli US Open in particolare. Sono felice anche per il mio team, questa è una vittoria che condivido pienamente con tutti loro. Si parla spesso tra noi dell’importanza di ricostruire una classifica importante. È l’obiettivo che ci siamo dati». E anche il miglior modo per evitare quelle poco generose sovrapposizioni derbystiche, come è successo al secondo turno di Wimbledon, subito opposto a Jannik Sinner. Un match che il pubblico ha giudicato tra i migliori di quest’ultima edizione dei Championships.
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