Diciamo la verità, c’avevamo fatto tutti la bocca.
I titoloni erano pronti. Le foto di Laver spopolavano già su internet e Wikipedia era pronta ad aggiornare la pagina di Djokovic da “uno dei migliori” a “migliore di sempre”.
Poi ti svegli la mattina, apri il giornale e, ops, Medvedev ti rovina la festa. E torni ad aspettare qualcosa che il tennis aspetta dal 1969…
C’eravamo andati vicini col dominio di Federer, colui che, numeri alla mano, ci è forse arrivato più vicino, essendogli di fatto mancati due soli set a Parigi, in annate stroncate sul nascere dalla supremazia di Nadal sul rosso. L’avevamo pronosticato a un Nadal stesso nel 2009 quando aveva finalmente aveva infranto anche la barriera del cemento, salvo poi venire bloccato da un ginocchio ballerino. Sembrava ormai questione di ore sabato mattina, quando Djokovic mandava a casa Zverev e sorrideva pensando che il finalista dall’altra parte fosse colui a cui aveva insegnato tennis a Febbraio in Australia. Invece nulla anche stavolta.
E adesso? Quanto dovremo aspettare ancora?
Nole, per quanto superiore a tutti durante tutta la stagione, è parso esausto e sfinito, nonché svuotato durante la premiazione di New York, come se l’impresa lì a due passi fosse quasi troppo grande e come se improvvisamente gli fosse piovuta addosso tutta la stagione vissuta verso quel traguardo. Un traguardo enorme, che richiede sacrificio, focus, condizioni mentali e fisico-atletiche costanti lungo tutto l’arco dell’anno, nonché, perché no, di circostanze favorevoli che non guastano mai. Aveva fatto tutto bene Novak, eppure già a Tokyo si erano visti i primi scricchiolii dello sforzo profuso. Le fatiche newyorchesi hanno fatto il resto, con le sei ore spese in più di Medvedev sul campo, che a 34 anni non potevano non farsi sentire. Ci riproverà? Ovvio. E’ il numero uno al mondo e, fino a prova contraria, uno che anche solo a velocità di crociera è ancora capace di battere chiunque, a meno che questi non faccia il match della vita. Eppure anche la sola dichiarazione della vigilia “giocherò come se fosse l’ultima partita della mia carriera”, già dava l’idea della pesantezza che il serbo si portava sulle spalle. Come se anche lui credesse che si fosse davanti a un “ora o mai più”. Cosa che forse ha finito per schiacciare anche una mente inscalfibile come la sua, quella probabilmente del giocatore, se non più grande, sicuramente più forte di sempre.
Quindi, se non ci riesce nemmeno il giocatore più forte di sempre come la mettiamo?
Riguardandoci indietro fra 10 o 15 anni, continueremo a pensare a come l’11 Settembre 2021 ci stessimo preparando a vedere la scritta “Grande Slam” su ogni giornale mondiale?
Probabilmente sì, a meno che un nuovo ultrafenomeno non nasca a far polpette del “popolo”, cosa al momento ancora ben lontana da un orizzonte visibile.
Perché francamente tutti gli altri top 20 non sembrano in grado, soprattutto mentalmente ancor prima che tennisticamente, di reggere l’impresa, senza dimenticare che finché i Djokovic e i Nadal (tralasciando un Federer ormai indecifrabile) scenderanno in campo avranno sempre le loro belle gatte da pelare. Thiem pare entrato nel classico tunnel “oddio-ho-vinto-uno-slam”; Tsitsipas appena vede l’erba si perde manco fosse una giungla; Medvedev pare giocare uno slam ogni tre (magari ora che ne ha vinto uno…); Berrettini gli si vuol bene ma Wimbledon a parte pare sempre uno a cui manca questo e quello degli altri citati sopra (e francamente ci basterebbe anche solo Wimbledon, intendiamoci…); Rublev e Shapovalov sono due folli a piede libero; i giovanissimi (Álcaraz, Sinner, Auger-Aliassime) sono ancora indecifrabili con tanto potenziale, come però è stato detto di molti altri prima di loro.
Eppure una cosa forse non dovremmo lasciarla da parte. Una volta in cui i tre “imperatori” decideranno davvero di farsi da parte, ci resteranno tanti tennisti cresciuti tutti praticamente nella stessa maniera, che giocheranno prevalentemente un tennis di regolarità e intensità da fondo e tutti, o quasi, senza un vero colpo risolutore capace di dominare il circuito. E tutti, duole ammetterlo (ma negarlo sarebbe mettersi le classiche fette di prosciutto sugli occhi), nettamente al di sotto al livello fatto vedere dai tre signori di cui sopra, almeno per ora. Ecco, in questa realtà generata nel corso delle ultime decadi dall’omologazione alla quale abbiamo assistito a partire dai primi anni 2000, e fatta di tennisti che faranno quasi tutti la stessa cosa, ovvero tirare sempre più forte e portare l’altro fuori-giri, forse uno magari comincerà a fare tutto un po’ meglio degli altri e con un po’ di costanza, abbinata alla mentalità giusta. Probabilmente non avremo i livelli raggiunti dai Nole, dai Roger e dai Rafa o nemmeno le loro battaglie caratterizzate da stili così diversi tra loro. E il tennis lo sentiremo più povero, consapevoli del fatto che questa generazione o quella dopo ancora ce l’avrà fatta solo perché quella d’oro, dopo vent’anni (20!), si sarà fatta da parte. Perché è inutile nascondersi: Nole è arrivato a un passo dallo slam perché è un fenomeno, ma anche perché di “altri” fenomeni in giro al momento non ce ne sono proprio.Eppure, emergendo dal mare della “normalità” (chiamiamola, per quanto suoni dispregiativo, un po’ così) e riuscendo a interpretare meglio lo stesso tennis degli altri, sarà perfino più facile, per colui che riuscirà a fare ciò, raggiungere quel grande slam che i tre fuoriclasse che ci saremo lasciati alle spalle, chi per un motivo, chi per un altro, avranno solo accarezzato. Perché non si tratterà di avere un dritto o una varietà migliori di un fenomeno Federer, o un top-spin migliore di un fenomeno come Nadal, o un livello maggiore di quello di un fenomeno come Nole, ma essere migliori, di chi, permettetecelo, fenomeno forse non sarà mai.
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