Vincerà, prima o poi. Potete esserne certi. E lo farà su questa stessa erba che ieri, neghittosa, non si è voluta concedere all’ardore troppo inesperto del novizio, alla frettolosa bramosia giovanile che indulge nel piacere degli errori evitabili. Ma non ha mancato di fargli l’occhiolino, di invitarlo a insistere, di concedergli una speranza. “Par delicatesse, j’ai perdu ma vie”, scriveva Rimbaud. “Ah! Que le temps vienne…”. Sì, quel momento arriverà, caro Matteo. Non oggi. Ma domani certamente…
Il corteggiamento del bel ricciolone, non ha lasciato insensibili le divinità del tennis che intorno a un Centre Court ormai intriso di storia e di episodi indimenticabili, sono solite assieparsi per l’annuale festa sui prati. Il sorriso sincero, la sportività innata, l’energia mostrata nel rimettere così tante volte in discussione il risultato, la voglia di mostrare a tutti di non essere lì per caso, ma di saperci fare, di poter domare quei fili ormai spettinati e sdruccioli, sono piaciuti. E al di là della sconfitta, forse inevitabile, di fatto non evitata, e delle tre ore e 24 minuti di un match che ha alternato agli errori molti momenti di tennis da applausi, resta la convinzione che la bella storia dell’italiano erbivoro, gambe smilze e petto in fuori, capace di imprimere forze sconosciute a una palla da tennis, non sia finita qui. Lo dice anche Djokovic. «Ho battuto un campione che diventerà nei prossimi anni il concorrente più pericoloso».
Lo sa Matteo Berrettini? Forse non è il momento adatto per chiederglielo, dato che ben altre erano le sue intenzioni. Era pronto a sfondare il muro che sapeva si sarebbe trovato di fronte, era deciso a rischiare il tutto per tutto. Non poteva sapere, però, quanto quel campo, quell’erba, quel pubblico, quell’avversario, gli avrebbero fatto battere il cuore. «Quando sono entrato… I primi game… Sentivo che le emozioni mi battevano dentro come in un flipper». È stata una finale in salita, ma si sapeva. Lo sapeva. E non sono bastati pochi game a spegnere l’incendio. Il fuoco si è attizzato più volte, nel corso del match. Anche quando Matteo sembrava in grado di giocarsela alla pari, anche quando ha dato l’impressione di poter dominare l’avversario. Ricordi che si porterà dietro, per un po’. Quei primi quattro game del set d’avvio, quando un Nole nemmeno troppo sereno ha concesso doppi falli (tre), palle break (una) e giocate a strappi, e Matteo non è riuscito ad approfittarne. Anzi, è stato lui a concedere il break per primo, nel quarto gioco, costretto da lì a giocare rincorrendo un avversario che di natura è fra i più infidi e sguscianti. Eppure Matteo ha capovolto la situazione, ha ottenuto la parità dopo aver annullato un primo set point, e nel tie break, ripreso una prima volta sul 3 pari, è ripartito di slancio in un festival di colpi che sembravano fuochi d’artificio.
Non è bastato quel set vinto a svuotare la testa dei molti dubbi che Djokovic, con il suo tennis di precisione, ma senza mai correre grandi rischi, riesce a infilare tra i pensieri altrui. L’inizio del secondo ha visto Matteo vacillare di nuovo, e concedere addirittura due break. Troppi, anche per un esperto di rimonte. Berretta ci ha riprovato, infatti, si è riportato sotto, ma lo sforzo gli è servito giusto a ridare dignità al punteggio. Poi il terzo, con un break nel terzo game. E il quarto, perso al settimo game. Momenti negativi su cui ragionare, ma all’interno di un percorso generoso, tra molte chance mancate di un niente, che non ha mai fatto dubitare sulle possibilità di Matteo di essere un giorno, proprio su questa stessa erba, il protagonista assoluto.
«Non ho giocato la mia partita migliore, ma il suo tennis ha finito per condizionarmi più di quanto mi aspettassi. Posso solo congratularmi con Nole. È lui che, un tanto alla volta, ti porta vicino al punto di rottura. Ma ora sono deluso, incazzato, potete capirlo. Vengo però da quindici giorni sull’erba giocati come non avevo mai fatto prima. Ho vinto il Queen’s, sono arrivato in finale a Wimbledon. E adesso ho la voglia di mettere le mani su uno di questi trofei che fanno la storia. Esco dalla finale dei Championships con questa precisa volontà, vincere i titoli più importanti. Qui, oppure negli altri tornei del Grande Slam. Sono certo di poterlo fare».
Ormai Matteo perde solo contro i più forti. Lo sa. Così come sa che dovrà cominciare a batterli più spesso. «Sono cresciuto ammirandoli, ora sono il ragazzo che tenta di batterli. Lo vivo come un onore, e non credo di sbagliare a pensarla così. Ho bisogno di mettere al servizio del mio tennis le esperienze che sto facendo, ma sono convinto di essere sulla strada giusta».
Djokovic rispolvera l’antica liturgia delle sue vittorie erbivore. Bacia l’erba, la mastica… Sei Wimbledon, venti Slam, la corsa al Grande Slam che continua. E potrebbe diventare Golden Slam, se Nole riuscirà a vincere il titolo olimpico prima degli US Open. Vuole diventare il più forte. Ci riuscirà. Forse… Non il Più Grande, però, perché quello è il titolo che va a chi sa emozionare con il suo tennis. Matteo accetta il distinguo: «Lui ha grandi meriti. È l’unico, Nole, che copra il campo centimetro per centimetro, senza dare possibilità di aprire un varco nella sua difesa. Ti studia, poi adatta il suo gioco al tuo, e allora diventa difficile fargli il punto. Lui e Federer sono i più grandi. Non so se saranno sufficienti i risultati a stabilire chi meriti di più».
Lui si affida ad altri pensieri, e a nuove speranze. La sfida è lanciata. «Ci ho perso, ma non vedo l’ora di affrontarlo di nuovo». E Djokovic lo sa.
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