È passato così tanto tempo che si fa quasi fatica a ricordare il tennis di Alexandr Dolgopolov. Ed è un peccato, perché l’ucraino – che oggi ha ufficializzato un ritiro già nell’aria da qualche tempo – è stato davvero un bel vedere.
A dare il colpo del ko è stato il protrarsi dei problemi al polso, cominciati proprio tre anni fa e rimasti irrisolti nonostante due operazioni subite nel 2018 e nel 2019: a questo, si è aggiunta poi la sindrome di Gilbert, un problema al fegato di cui Dolgo soffre da sempre e che causa qualche problema al metabolismo. Insomma, un insieme di fattori hanno reso il recupero fin troppo difficoltoso costringendo l’ucraino a gettare la spugna.
Figlio d’arte (il papà è stato allenatore di Andrij Medvedev, ex numero 4 ATP), Alex nasce e cresce respirando tennis: si allena con i migliori ed entra presto nel circuito accompagnato da suo padre. In campo è disciplinato ma fuori comincia a patire la rigidità paterna. Così, a vent’anni, cambia coach e sceglie Jack Reader, un australiano dal carattere estroso e lo stile di vita libertino: “sa comunicare e dà peso al tuo punto di vista anche se non concorda”, racconta ‘The Dog’ a tal proposito. Reader lo porta fino al numero 13 del mondo (gennaio 2012, best ranking) tra grandi prestazioni in campo e simpatiche marachelle fuori, come quando – su un volo Parigi-Nizza – il duo sceglie di approfittare della promozione riservata alle coppie gay fingendo una fantomatica relazione amorosa.
Note di colore a parte, di Dolgo si ricorderà certamente lo stile di gioco unico: gli slice affilati e le palle corte chirurgiche, uniti alle badilate piatte e al servizio molto preciso, lo rendono ancora oggi un giocatore molto difficile da inquadrare all’interno di una macro categoria tennistica. Spettacolare ma centrato, la rarità del suo gioco ha spesso battuto la resistenza dei top-10, come dimostrano le svariate vittorie di prestigio ottenute in carriera.
Fino al 2015, tra alti e bassi, Dolgopolov è riuscito a rimanere intorno ai primi venti del mondo senza troppi patemi, poi l’inizio del calo. L’ultima partita agli Internazionali d’Italia, anno 2018: quattro miseri giochi racimolati al cospetto di Novak Djokovic ed una forma già troppo deficitaria per competere ai vertici del circuito. Conserva due titoli ATP (uno ad Umago, l’altro a Washington), cinque Challenger ed un quarto di finale all’Australian Open, miglior risultato Slam: troppo poco per un talento pari al suo. E per questo, al netto di quanto resta negli almanacchi, mancherà a molti appassionati.
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