Cos’è tutta questa mestizia, questo cinico disinteresse, quest’allegria forzata che insieme al mondo si è preso anche il tennis? L’impresa di Nadal dimenticata in fretta, il primo slam di Thiem che è sembrato un brutto film, il primo slam dell’anno che è stato anche l’ultimo, perché un Roland Garros a ottobre chissà cos’era e di New York appunto. Un anno passato a chiedersi perché non si gioca, poi perché si gioca qui e non lì, poi alcune partite perfino belle, soprattutto – a proposito di stranezze – alle finals, ultima volta a Londra, chissà cosa succederà a Torino.
Il tennis è stato trovato dal SARS-CoV-2 mezzo nudo, con un nuovo presidente magnificato dai media nostrani, al solito interessati a poco altro che la cittadinanza di chi si trovano a commentare, col re dei re con capelli sempre più radi, quasi come la nemesi, per non parlare del terzo incomodo, al quale il tennis sta stretto e che sembra troppo piccolo per il tennis, va a sapere come mai. E poi la vergogna di Zverev, con tutti sempre pronti a cautelare un bel faccino che gioca a tennis invece di provare a immaginare la disperazione di tante Sharypova, il cui racconto al New York Times è una discesa negli inferi del dietro le quinte di un mondo troppo piccolo per essere anche frequentato da troppe persone per bene. Neanche alla fine dell’anno si è riusciti ad uscire dal grottesco, con la vicenda più comica che drammatica di Sam Querrey, scappato dalla Russia senza badare ai protocolli, che in effetti vanno bene solo se riguardano gli altri, come hanno spiegato per bene gli ascari della federazione, pronti a chiudere anche gli spifferi delle imposte ma indignati di fronte a degli internazionali senza pubblico, cosa che torna buona per chiedere l’elemosina a chi ha pagato il biglietto senza vedere le partite. Non vorrete voi forse contribuire con qualche decina di euro alle magnifiche sorti e progressive dell’italico tricolor, pronto a vincere slam come se fossero dei 250? Va bene che nel frattempo si fatica a vincere quelli, ma sono inezia di fronte alla golden age di un sistema che da vent’anni è in mano a quattro tizi che non è il caso di incontrare nei vicoli al calar del sole e che sanno benissimo come va il mondo e come si fa a comandare, notoriamente meglio che fare quell’altra cosa, se il tuo orizzonte è racchiuso tra i nuraghi.
Certo, ci saranno quelli che non è tutto da buttare, beati loro che si accontentano, sempre meglio di quelli che e allora vatti a vedere il calcio, magari si avesse lo stesso spettacolo. Ma anche il tennis, più che saperlo lo ricordiamo, è capace in mezzo allo squallore di far intravedere quella bellezza che mendichiamo e che ritroveremo tra poco. Tra quanto non è dato a saperlo, ma nel ghigno luciferino di Medvedev, nella potente bellezza dei gesti di Thiem, nella cupezza accigliata di Rublev, persino nel controllato hipsterismo di Tsitsipas e nel rovescio di Shapovalov ritroveremo la voglia di rovesci e recuperi, di violenza e tocco, dimenticandoci del sì vabbè ma McEnroe, e la frustata liquida e ma anche basta.
La speranza è che il delirio in cui è precipitato il mondo si interrompa in qualche modo, ed è un peccato che le previsioni siano cose diverse dalle speranze. Febbraio non è mai parso così lontano e cominciare uno Slam non è detto che significhi finirlo, anche se i due precedenti fanno sperare. E allora, leggiamo pure nel fegato degli uccelli – sviscerare significa quello no? – se Federer dirà basta a Wimbledon e se il record annunciato di Djokovic abbia un qualche significato, ma ad una condizione: che quando il primo Layhani dirà finalmente “Play” tutto sparisca, per non tornare mai più.
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