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L’Australian Open celebrerà Margaret Court. Persa l’occasione di un taglio col passato

Qualche settimana fa Margaret Court aveva pubblicamente esposto il proprio disappunto per non aver ancora ricevuto alcun invito da parte di Tennis Australia per partecipare, a spese della federazione, al prossimo Australian Open.

Il punto del suo malessere veniva incentrato sul fatto che Rod Laver nel 2018 ebbe tutte le gratificazioni possibili nelle celebrazioni dei 50 anni dal suo secondo Grande Slam, il primo dell’Era Open. Nel 2020 saranno 50 anni, invece, da quando Court riuscì a completare il suo, nel 1970.

Visti i tempi, non è difficile pensare che quell’uscita fosse soprattutto incentrata sul mettere in luce una differenza di trattamento che cominciasse a creare pressioni autorevoli sul mondo del tennis australiano e soprattutto sulla federazione, che si sarebbe dunque trovata spalle al muro e costretta a una decisione molto scomoda, qualunque potesse essere. E alla fine, ha scelto probabilmente la peggiore.

Court sarà a Melbourne con la propria famiglia, in un luogo dove da anni ribolle sempre meno sotto coperta il partito di chi vorrebbe cancellare la sua figura dalla memoria storica del tennis locale. Il problema, qui, è che si entra in campo dove non tutti oggi vogliono avere orecchie buone per ascoltare quelli che sono problemi enormi. Ed è bene fare subito una distinzione chiara: non esiste la parola “opinione” quando si parla di bambini figli del demonio se concepiti dal matrimonio tra due persone dello stesso sesso. Quello è odio, omofobia. Come allo stesso modo non è “opinione” dire che si andrebbe sempre più volentieri in Sud Africa nel periodo dell’apartheid perché si ama quel sistema da mettere quel paese in cima alle proprie preferenze. Quello è “razzismo”. L’opinione vera, condivisibile o meno, è quella che disse nel gennaio 2016 a proposito del fatto che il tennis femminile è noioso. Poi, piacevole o meno, del tennis femminile si può dire tutto (anche troppo) ma “noioso” è forse uno degli ultimi aggettivi che viene in mente.

Lei che si scagliò con sempre maggior violenza verso la comunità gay e transgender, soprattutto da quando in Australia cominciò la rivolta socio-culturale che ha spinto all’approvazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, che ha esaltato il Sud Africa pre-Mandela, ha preteso e ottenuto lo stesso trattamento di chi ha ottenuto successi che nel peso specifico avevano altro valore. L’Era Open viene considerata dal 1968 in poi, ma quando parliamo di tennis femminile per tutta una serie di avvenimenti non possiamo non spostare questo momento al momento in cui venne stilato il primo ranking ufficiale WTA, il 4 novembre 1975. Lì l’avventura professionistica femminile ha davvero inizio, motivo per cui i 24 Slam di Court sono ancora oggi un dibattito abbastanza ricorrente per via di Serena Williams, avvicinatasi talmente tanto a quel numero da far traballare qualcosa che sembrava inscalfibile perché, appunto, appartenente a un’altra era. Soprattutto, molti dei 13 successi di Court all’Australian Open sono arrivati prima del 1968, quando il torneo era già solo difficile da raggiungere e giocato in un momento dell’anno che portava tante a non provarci neanche.

Al di là del numero, 24, che perfino leggende come Chris Evert rifiutano di considerare (“Non c’è una sola che ritiene i suoi 24 titoli siano un record reale, comparabile ai 23 di Serena o i 22 di Steffi Graf” disse in una telecronaca di qualche anno fa). Il peso del risultato sportivo ottenuto nel 1970 è valido, ma nel momento in cui Tennis Australia, pur spalle al muro, ha accettato la propria condizione nell’invitare una persona così scomoda come Court, ha mancato una grande occasione per dare un segnale forte. La Margaret Court Arena, che è pure un campo molto ben costruito e particolarmente moderno, è un po’ l’elefante nel salotto. Rinominata così nel 2003, quel nome è sempre più scomodo soprattuto ora che tra Samantha Stosur e Ashleigh Barty l’Australia ha (e ha avuto) due vere campionesse soprattutto dotate di grandi valori morali, con successi in campo e fuori, dove si fanno apprezzare per quello in cui Court ha sempre fallito. Carriere incomparabili, ma il peso specifico è diversamente proporzionale.

Forse, e non è per dare un alibi, gli ideali di Court sono stati assorbiti da un ambiente che 70 anni fa poteva essere molto più chiuso al mondo esterno e senza quella capacità di apertura mentale che è arrivata nel 2019. L’Australia degli anni 30, 40, inoltre, era probabilmente ancor più isolata dal resto del pianeta. Questo però non toglie che volente o nolente non si può più pensare di vivere in un mondo che rifiuta “l’altro” da spargere odio a mezzo pubblico come lei ha sempre fatto. L’opinione è una cosa condivisibile o meno, ma che propone un dialogo e un confronto. L’odio, inteso qui come omofobia e razzismo, non può essere accettato e non può avere confronti.

Così commentò la gravidanza di Casey Dellacqua, connazionale ed ex giocatrice di altissimo livello in doppio, nel 2013 con: “Personalmente non ho nulla contro Casey e la sua “partner” (tra virgolette, scritto così) ma è con tristezza che vedo come questo bambino è stato privato della figura paterna”. Così commentò nel 2017 la tendenza, come lei crede, che sempre più nuovi bambini si stiano “votando” all’omosessualità: “Su di loro c’è il diavolo che agisce coi suoi schemi. Questo è quello che fece Hitler, questo è quello che fece il comunismo. Una grande propaganda che è entrata nella mente dei nostri figli e nei bambini di tutto il mondo”. Sull’apartheid, a inizio del 1970, disse: “Il Sud Africa ha questa grande organizzazione, la migliore di tutti, anche degli Stati Uniti. Amo il Sud Africa, ci tornerò ogni volta mi sarà possibile”.

Tennis Australia, alla fine, l’ha invitata. Tra circa due mesi Court verrà celebrata, convinti che nel 2019 (o 2020) si possa ancora distinguere il risultato ottenuto da quella che è la persona e fare come se nulla fosse. Il comunicato che annuncia la sua presenza è simbolico del tentativo di mantenere la calma: la prima metà annuncia trionfante la sua presenza, la seconda metà prende le distanze da tutto ciò che lei è. Il che genera una sensazione di enorme confusione e imbarazzo. Vogliamo estremizzare la cosa? Orenthal James Simpson era un famoso giocatore di baseball, considerato da più parti uno dei migliori di tutti i tempi e inserito nella Pro Baseball Hall of Fame, finito poi a fare l’attore cinematografico, ma nessuno oggi si azzarda anche solo minimamente a nominare la parola “OJ”. Lei che pretende la cancellazione di una parte dell’umanità e non riconosce alcun diritto, ha voluto a gran voce lo stesso trattamento riservato a un ex collega.

E se proprio c’è una tennista australiana del passato da onorare con orgoglio, quella è Evonne Goolagong. E se farete una domanda a Barty dove figurerà il nome di Margaret Court, lei cambierà velocemente argomento. A Parigi, subito dopo aver vinto il primo titolo Slam in singolare, ad “Ash” venne chiesto che effetto le faceva avere successo in un torneo che aveva visto proprio Court vincente qui 50 anni fa, rispose facendo riferimento soltanto a Stosur, finalista nel 2010.

Diego Barbiani

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