In un tennis che si ispira al progresso, che avanza nel tentativo di alzare il limite sempre più in alto, che vuole perfezionare ogni dettaglio nei più piccoli aspetti, forse non pensavamo di vedere un Master così. Un torneo diverso da tutta la stagione, dove a trionfare è stata una Elina Svitolina ammirevole per come abbia deciso di sacrificarsi in un gioco di grande cuore e generosità non potendo, al contrario di altre, fare affidamento su un tennis “definitivo”.
Non ha nel servizio un’arma risolutiva, per quanto magari sia migliorato nel corso del 2018 e per la prima volta in carriera abbia superato 200 ace in una stagione. Non ha il dritto mortifero di alcune sue colleghe ai vertici del ranking WTA. Non ha la fluidità dei colpi, per esempio, di Sloane Stephens, avversaria battuta nell’ultima finale giocata a Singapore e probabilmente neppure la sensibilità di palla della statunitense. Eppure ha (almeno) i tre particolari che Billie Jean King ha ripetuto in una conferenza stampa tenutasi in settimana: testa, cuore, coraggio. Noi, perdonaci Billie Jean, aggiungeremo anche “gambe”, perché quelle corse e rincorse di puro sacrificio e volontà sono stati uno dei leit motiv della sua settimana.
Ha capovolto il mondo, Elina. Ha fatto valere la propria freschezza atletica contro un parco giocatrici che alla lunga non ha tenuto la sua costanza, non ha pareggiato la sua disposizione al sacrificio, e malgrado forse abbiano giocato un tennis più offensivo, questo successo rimane ampiamente meritato. Testa, cuore e coraggio: la ricetta di un successo che non parla di potenza, non parla di una giocatrice nelle luci della ribalta malgrado già lo scorso anno sia stata in grado di arrivare al numero 3 del mondo. Ragazza onesta, umile, che veniva da un momento estremamente complicato: i risultati scarseggiavano, le voci di chi metteva in dubbio i suoi risultati finora aumentavano, le critiche sull’aspetto fisico (al di là di tutto, il cambiamento è evidente a vista d’occhio) erano sempre più insistenti. Dopo questo, la mancata wild-card avuta nell’ultima settimana della stagione regolare per una vicenda piuttosto contorta proprio a favore di Stephens: Elina sapeva che la statunitense fosse qualificata pur non entrando in tabellone a Mosca, ma quest ultima non ha lasciato libera la wild-card che avrebbe permesso all’ucraina di difendersi dal rientro di Karolina Pliskova e Kiki Bertens.
Alla fine sarebbe arrivata comunque visto il forfait di Simona Halep, ma in quel momento la situazione era molto difficile da digerire. La stessa Svitolina decise di andare per un paio di giorni al mare, per non pensare all’amarezza di uno scenario in cui lei, non potendosi difendere, era la principale indiziata a non qualificarsi a Singapore. “Mentalmente era molto difficile” dirà poi durante l’All Access Hour, “e per non dover sopportare un’ulteriore delusione mi ero già convinta che avrei giocato a Zhuhai”. Ovviamente la qualificazione a Singapore fu accolta come un’enorme liberazione e domenica scorsa, contro Petra Kvitova, è iniziato il suo romanzo. Nel 2005 una canzone dei Gemelli Diversi diceva “un tiro da segnare che aspetta per svelarti se tutti quei sogni per cui tu corri li meriti davvero o son solo illusioni folli”, sostituendo “tiro” con “palla” e “segnare” con “colpire” abbiamo il motto della settimana che le ha cambiato la vita.
La magnifica follia di Elina, diventare la prima giocatrice da Serena Williams nel 2013 a vincere un Master da imbattuta, è nata con un 6-3 6-3 contro quella giocatrice che l’aveva battuta le ultime 7 volte consecutive. Un torneo trascorso rincorrendo l’avversaria per oltre metà della propria durata, essendo spesso in svantaggio non solo nello scambio ma anche nel punteggio. Non considerando i game in risposta, lei ha giocato 68 turni di battuta in 5 partite e in ben 32 di queste è partita in svantaggio. Quasi la metà, eppure ha perso il servizio soltanto in 11 di queste occasioni (le altre 3 da 15-0 avanti). Da sottolineare soprattutto le volte in cui ha recuperato situazioni dove era indietro 0-30: otto volte su 10. Ha avuto le condizioni migliori per farlo, vista la lentezza di una superficie che chiedeva tantissimo dal punto di vista atletico e non favoriva tennis aggressivo. Soltanto Serena Williams, delle 5 diverse campionesse a Singapore, è quella veramente aggressiva e potente, eppure anche lei ha avuto momenti molto delicati: perse 6-2 6-0 contro Simona Halep ai gironi, salvò un match point a Caroline Wozniacki in semifinale. Anche Dominika Cibulkova è più propositiva, sebbene è difficile che imposti una partita sull’uno-due come può fare invece la statunitense, e comunque anche lei ebbe tanti problemi tra girone e semifinale. Al di là di questo, però, ci voleva tanto del suo: quattro partite consecutive vinte al terzo set le ultime tre da due ore e mezza di durata con un solo giorno di riposo.
Ragazza molto improntata sul lavoro, è probabilmente conscia di dover faticare molto più di altre per arrivare a ottenere un traguardo di questa portata. Quando tutti parlano di potenziale vincitrice di titoli Slam solo perché si arriva da un momento positivo, in questo periodo si fa l’errore di dare troppo peso al numerino della testa di serie accanto al nome. Elina può essere 3, 4, 5, 10 del mondo, ma rimane in un percorso in cui ha tanto da fare e ha la mentalità giusta per affrontare le varie situazioni. Può sbagliare, forse la scelta di perdere così tanto peso non è stata l’ideale, forse la scelta della separazione da Thierry Ascione non era in programma (e infatti adesso andrà alla ricerca di un fisioterapista e di un nuovo coach da affiancare ad Andrew Bettles) ma nasce dalla grande volontà di fare qualsiasi cosa per arrivare a un traguardo che per lei vorrebbe dire tutto, mentre magari per giocatrici di maggior “peso” e possibilità rappresenta un inizio: il titolo di alto livello, che sia uno Slam o un Premier Mandatory, il massimo a livello WTA, Finals escluse proprio per la loro particolarità di avere un Round Robin che può portare a vincere pur perdendo partite nel girone.
Chissà che cosa porterà il futuro. Facile adesso dire che questa settimana la deve portare a fare bene nei Major, come se fosse un’automatica conseguenza. Troppo facile, soprattutto perché non in ogni campo ci sono le stesse condizioni di Singapore. Troppo facile, perché il tennis femminile in questo momento è davvero complicato da decifrare: sono tutte lì, neppure il rientro di Serena Williams ha ristabilito una gerarchia. Un po’ la situazione della statunitense, un po’ la crescita di una gioventù d’oro come mai successo nella WTA negli ultimi 10 o 15 anni, un po’ la crescita di una generazione di mezzo che viene spronata da tanti particolari e non può rimanere indietro in questo momento dove c’è da forzare ancor di più. Svitolina può essere considerata in questo cerchio, e come lei Stephens, entrambe impegnate a difendersi e a dimostrare il proprio valore dalle accuse di non valere abbastanza, o di essere giocatrici da “un colpo e basta”. Il problema, o semmai la ragione che crea questo blocco piuttosto compatto, è che nessuna di loro è una fuoriclasse assoluta come magari Serena fino a qualche anno fa. Nessuna può essere “grande favorita” in uno Slam e devono tutte trovare l’alchimia giusta, l’A-game come l’ha chiamato Chris Evert, fin dal primo turno. Qui Elina ce l’ha fatta, pur confessando lei stessa di non aver avuto la settimana perfetta. “Non è che qualsiasi cosa che abbia toccato sia diventato oro” diceva in conferenza stampa dopo la finale, ammettendo di avere avuto cali di rendimento nelle proprie partite, “ma il fatto che abbia lavorato così duramente per venirne fuori e arrivare fino al titolo è qualcosa di cui sono molto orgogliosa”.
Personaggio molto più umile di quello che può apparire, è una campionessa che da valore al movimento femmine. Lo si è visto già ad agosto a Montreal quando al momento del grave infortunio occorso a Mihaela Buzarnescu lei è stata la prima a correrle incontro con un asciugamano per aiutarla nei primi soccorsi, stringendole poi forte la mano mentre la rumena urlava dal dolore per una caviglia che avevo visto i propri legamenti lacerati da una brutta caduta. Poi qui fin dal primo giorno quando è entrata in campo cercando la mano del bambino raccattapalle accanto a lei che bloccato dall’emozione ha tirato dritto verso il campo senza accorgersi del momento e lei ha finito per esporre un gran sorriso e una mano sulla schiena, divertita, o quando dopo il suo successo in finale ha voluto attorno a se tutti per una mega foto di gruppo e li ha poi ringraziati uno a uno con una stretta di mano.
In un Master all’insegna del grande equilibrio, con 10 partite al terzo su 15 giocate, il fattore fisico e mentale hanno assunto una grande importanza. Si poteva avere una qualità migliore nel gioco? Probabilmente sì, anche se visto come molte sono state portate al limite dal dispendio di energie e difficilmente in questi casi c’è abbastanza lucidità. Si poteva chiedere di più alle giocatrici in termini di agonismo e desiderio di vittoria? No. “Lotta su ogni punto”, “credi in te stessa”, “lavoro, lavoro, lavoro”. Niente bum-bum, niente gioco iper aggressivo. Solo (si fa per dire) tanta solidità e determinazione, voglia di raggiungere anche la palla più difficile, di crederci un centimetro in più di quello che faresti normalmente. #TrustTheProcess
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