Ore 19:18 di Indian Wells, un mio tweet recita: “Ho bisogno di una pausa”. Era il risultato di un’ora intera passata a spulciare nel minimo dettaglio il regolamento WTA alla voce wild-card dopo che mi era arrivata indicazione che Eugenie Bouchard aveva terminato il numero di inviti possibili. Effettivamente, il regolamento dice che ogni giocatrice ha diritto a un massimo di 6 wild-card di cui 3 per i tabelloni principali di tutti gli eventi: International, Premier e Slam. Eppure, chiaramente, c’era il barbatrucco: la canadese ha giocato per la prima volta il torneo di casa, il Canadian Open, nel 2008, ovvero 11 anni fa. Un’appendice finale, 3 pagine più avanti, chiarisce che una giocatrice che ha all’attivo almeno 10 anni nel circuito (indifferentemente dal numero dei tornei disputati) ha diritto ad altre 3 wild-card per i tabelloni principali. Bouchard ha giocato 4 tornei quest anno: Hobart, Australian Open, Taipei e ora Indian Wells. In 3 di questi ha avuto una wild-card per il tabellone principale dunque, e ora chiariamo definitivamente, ne ha a disposizione altre 3.
Tutta la vicenda era nata perché la ex numero 5 del mondo, ora, è a soli 2 (potenzialmente 3) tornei dal rimanere fuori dal tabellone principale del Roland Garros, dopo aver perso l’ennesima partita nei primissimi turni di un torneo e di non aver portato la sua classifica dentro le prime 110.
Oggi era anche la giornata dell’All Access Hour, momento semplicemente infernale di inizio torneo dove i primi 8 del torneo maschile e femminile entrano ed escono a ruota dalla sala delle conferenze stampa e i giornalisti sono rinchiusi lì per 4-5 ore, dimenticati da Dio e le sue creature. È una procedura standard di tutti i tornei, varia magari il numero di atleti coinvolti, ma ci si ritrova attorno a una tavola con il giocatore (o la giocatrice) seduto in mezzo a tutti, circondato da microfoni, registratori, cellulari, telecamere e macchine fotografiche. Io impazzirei, probabilmente in entrambi i ruoli. Alla fine, probabilmente, la più bella figura l’hanno fatta Garbine Muguruza e Jelena (pardon, Alona) Ostapenko. La prima spigliatissima nel parlare di quanto fosse bello trascorrere tanto tempo a Los Angeles, dove vive a Manhattan Beach (chi ha il coraggio di contraddirla?), la seconda piuttosto ispirata in diverse risposte, strappando diverse risate ai giornalisti, soprattutto quando raccontava della sua incapacità di gestire il proprio account di Twitter perché non abituata.
Capitolo allenamenti: ogni giorno c’è qualcosa di nuovo. Ieri, ad esempio, Novak Djokovic sembrava colpisse molto bene la palla nel primo allenamento qui a Indian Wells anche se di tanto in tanto sbuffava se i suoi colpi non entravano in campo. Oggi, invece, il nervosismo era molto più marcato. Raccontava Luca Baldissera di urla, palline lanciate e persino una racchetta frantumata, con Radek Stepanek immobile in un angolo quasi in silenzio per tutto l’allenamento. Tutto il contrario invece della bella novità durante l’allenamento di Kateryna Bondarenko, che non ha neppure lontanamente l’appeal del serbo, ma è qui in California con il marito, la figlia che oggi si trovava a scherzare con l’allenatore di Lukasz Kubot, e la sorella Alona qui impegnata come sparring. Tutto normale, non fosse che quest ultima è incinta e, a giudicare dalle foto fatte, possiamo azzardare che siano almeno 5 mesi di gravidanza.
E giocava, Alona: un passato da ex top-30, campionessa Slam all’Australian Open in doppio (2008) proprio con la sorella, ora in campo a colpire per allenare la reattività di Katerina, prima sui colpi a rete e poi sulla risposta. Uscendo dalla sfera del tennis fatto di personaggi perfetti e volti da manifesto, questo momento da “Tutto in famiglia” era veramente tenero.
Infine, un pensiero ad Alison Van Uytvanck. Sono uscite delle dichiarazioni della belga dove dichiarava apertamente la propria omosessualità, fattore che chiunque avrebbe notato se avesse fatto un giro sul suo account Instagram dove da tempo compaiono foto di lei assieme a un’altra ragazza con cui, a breve, ha annunciato che andrà a vivere: “Essere omosessuali non deve essere una vergogna, non è una malattia da nascondere. I miei genitori lo hanno saputo subito e sono molto orgogliosi di me, questo mi da grande coraggio ad affrontare la situazione”. Essere omosessuali non è, e non sarà mai, una malattia, ma fare coming out è sempre scomodo. La paura di non essere accettati è tanta e non tutte le storie, anche a livello familiare, rispecchiano la vicenda della belga, oggi sconfitta da Yulia Putintseva ma che ha conquistato un fan in più.
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