La WTA, ad inizio ottobre, aveva diramato le nomination per il “Comeback of the year”, ovvero la giocatrice che nel corso della stagione si era resa protagonista del rientro più importante a suon di risultati, vittorie e risalita nel ranking. Furono quattro le giocatrici alla volata finale: Petra Kvitova, Sloane Stephens, Madison Keys, Ashleigh Barty. Messo in conto che a decidere erano i fan che davano i voti sul sito internet dell’associazione tennis femminile, la sensazione è che mai come quest anno la lista poteva essere estesa ad almeno 6/8 giocatrici e che un pareggio, o più premiazioni, erano forse l’idea migliore. Basti pensare alle giocatrici approdate ai quarti di finale dello US Open: Venus Williams dal 2011 circa convive con una malattia autoimmune che la porta a stancarsi ben prima del previsto, eppure a 37 anni è arrivata a giocarsi la vittoria del Master di fine stagione (oltre ai vari risultati lungo il 2017); Petra Kvitova, accoltellata ormai un anno fa e rientrata incredibilmente dopo appena 5 mesi; Sloane Stephens, vittima di 11 mesi di infortunio e numero 957 del mondo solo 4 settimane prima; Kaia Kanepi, vittima per gran parte del 2016 e inizio 2017 di una fascite plantare che l’ha portata ad un passo dal ritiro; Madison Keys, protagonista lungo i primi 7 mesi del 2017 di due interventi e successiva riabilitazione al polso; Anastasija Sevastova, ritiratasi nel 2013 e rientrata nel 2015, partendo da zero, risalita fino ai margini della top-10.
Dunque la domanda sorge spontanea: Stephens ha poi ottenuto il riconoscimento, ma come è possibile privilegiare una sola persona viste tutte le, straordinarie, rientranti della stagione? “Unbreakable, they alive, damn it: it’s a miracle!. Unbreakable, they alive, damn it: female are strong as hell!” (al di là della traduzione, il video sotto riporta i primi attimi di una delle serie tv più apprezzate su Netflix: “Unbreakable”, “indistruttibili”. “Indistruttibili, sono vive, dannazione: è un miracolo! Indistruttibili, sono vive, dannazione: le donne sono dannatamente forti”).
Petra Kvitova – per lei ci sarebbe voluto un premio a parte. Il 20 dicembre la tennista ceca veniva assalita in casa da un uomo (non ancora catturato dalla polizia, tra l’altro) che si era finto ispettore del gas e le ha portato via, alla fine, poco meno di 200 euro. Petra, che viveva da sola nella sua casa di Prostejov, dopo averlo fatto entrare ha cominciato la colluttazione e, secondo la ricostruzione della BBC, si è vista puntare il coltello alla gola, provando a difendersi a mani nude. Fu ricoverata in ospedale, ci fu un intervento di 6 ore per salvare le funzionalità della mano e le prime voci raccontavano di varie lesioni a tutti i tendini delle dita. Cominciò un lungo periodo di riabilitazione. Lei chiese il massimo rispetto per la sua privacy ma tra speculazioni e rumors si è temuto in diversi momenti che non sarebbe più stata in grado di usare la mano ferita. Poi, un po’ a sorpresa, a fine aprile la prima immagine di Petra su un campo da tennis. A metà maggio l’annuncio che sarebbe volata a Parigi per provare a vedere cosa sarebbe successo. L’ultima domenica del mese, eccola entrare per prima sul Philippe Chatrier. Tutto quello che è venuto dopo, tra cui anche un titolo WTA (a Birmingham) e altri risultati prestigiosi, vale poco in confronto all’emozione così forte provata quel giorno da lei così come da tutti noi. Finirà la stagione con un ranking più basso della precedente, ma davvero questo è nulla.
Sloane Stephens – il 2016 era un anno speciale per lei, mai partita così bene a livello di palmares: 3 titoli nei primi 3 mesi. Rimaneva il rammarico di aver sempre perso all’esordio nei 3 appuntamenti più importanti, però dopo anni di stenti e 4 interi senza sollevare un trofeo la sensazione era delle più positive. Pochi mesi più tardi, invece, l’infortunio al piede e l’assenza dai campi iniziata ad agosto e perpetuatasi fino a fine stagione. Era pronta a cominciare l’anno nuovo quando all’improvviso ha dato forfait ad Auckland. Pochi giorni dopo si è saputo che era costretta ad operarsi al piede e che sarebbe potuta rientrare solo in estate. I primi passi sono stati mossi solo a fine aprile, ad inizio luglio il rientro e la sconfitta al primo turno di Wimbledon. Il mese dopo ha compiuto qualcosa di sensazionale: semifinale a Toronto, poi la settimana dopo a Cincinnati, poi è cominciato lo US Open che ne ha cambiato la carriera e che la vide trionfare in finale contro Madison Keys. Un mese per cancellarne 11, per salire di 935 posti nel ranking e compiere uno dei salti più vertiginosi che si ricordi.
Venus Williams – molti probabilmente hanno dimenticato che la statunitense si porta dietro una malattia autoimmune che la affligge da ormai 6 anni. La sindrome di Sjorgen, che la debilita al punto da non poter compiere attività fisica ad altissimo livello per lungo periodo. Ebbene, a 37 anni la ex numero 1 del mondo è riuscita a mettere in atto la miglior stagione degli ultimi 8 anni. Anzi, per alcune cifre siamo alla migliore dagli inizi degli anni 2000. Due finali Slam giocate, una semifinale (non arrivava tra le migliori 4 in 3 Major dal 2002), la sedicesima vittoria su una numero 1 del mondo regnante (Kerber, Miami), il rientro in top-5 dopo 5 anni. È inutile usare aggettivi. O almeno, sceglieteli pure voi.
Ashleigh Barty – a 14 anni era già ad occupare i maggiori titoli australiani, a 15 debuttava nei tabelloni Slam dei grandi. La vedevano come una predestinata e tutta quella pressione le ha sempre impedito di fare quantomeno l’ingresso in top-100. A fine 2014, nello stesso giorno in cui Na Li decideva per il ritiro, lei annunciava di volersi prendere una pausa dal tennis a tempo indeterminato. Non c’era certezza sul possibile rientro, e le speranze crollavano sempre più quando la si vide decidere per la carriera nel cricket. Ad inizio 2016, i primi doppi nei tornei ITF in Australia e a giugno il primo torneo (in singolare) WTA, poi il rientro definitivo ad inizio 2016, a Brisbane, con una classifica che la vedeva appena dentro la top-300. Da lì in avanti ci saranno tante soddisfazioni: l’ingresso in top-100, il primo titolo WTA, la prima finale in un Premier, le tante vittorie contro giocatrici di alta/altissima classifica, comprese le 3 top-15 battute a Wuhan e la finale più importante della carriera che l’ha proiettata n top-20.
Magdalena Rybarikova – a marzo era numero 453 del mondo dopo essere rientrata a giocare un mese prima dopo un calvario infinito tra problemi al polso e alla caviglia. Era in un ITF tedesco da 25.000 dollari e diceva, agli addetti ai lavori, di essere già felice di poter tornare a giocare. Sette mesi dopo si ritrova ad essere numero 1 del proprio paese quando proprio nel suo momento peggiore la prima giocatrice slovacca della WTA era Dominika Cibulkova, numero 4 mondiale. A Wimbledon il momento migliore, con la semifinale Slam raccolta eliminando anche la futura numero 1 Karolina Pliskova. Subito dopo lo Slam londinese il suo record vittorie/sconfitte era di 36/6 e 4 titoli in 5 finali (tutte a livello ITF). Da lì in avanti ha un attimo rallento il suo ritmo quasi forsennato, ma nell’ultima fase di stagione eccola di nuovo protagonista a Linz: la vittoria nei quarti di finale contro Sorana Cirstea le garantisce, per la prima volta in carriera, di concludere la stagione da numero 1. Il tutto a 29 anni e dopo 10 mesi di dubbi e incertezze sul futuro. (da completare)
Madison Keys – per lei vale lo stesso discorso di Sloane Stephens, anche se per diversi tornei lungo la prima parte del 2017 è stata regolarmente in campo. Eppure ci sono due operazioni al polso, causate da una complicanza succeduta al primo intervento che aveva fatto esclamare al medico, incredulo: “Mi chiedo come tu abbia potuto giocare in queste condizioni”. Effettivamente la sua stagione è stata, per i primi 6 mesi, piuttosto negativa. Pochi tornei, tante sconfitte. Poi appena è riuscita a prendersi un mese di pausa e dopo aver sistemato la sua situazione fisica, è ripartita inanellando un agosto molto importante. Un titolo, un’ottima prestazione contro Garbine Muguruza a Cincinnati, soprattutto la finale allo US Open. Concluderà la stagione con un ranking peggiore rispetto al 2016, ma ci sono i motivi per sperare che quel doppio problema non possa averle rovinato la carriera.
Petra Martic – se Sloane Stephens ha recuperato 935 posizioni in un mese, Petra Martic ha compiuto qualcosa di molto simile tra metà aprile e inizio giugno. La sua carriera sembrava essersi arenata ben prima dell’ernia alla schiena che la teneva lontana dai campi da Wimbledon 2016 e quell’infortunio poteva essere il colpo finale. Invece ci ha creduto (probabilmente l’unica a farlo) e ha scelto l’accademia di Waske e Schuttler in Germania, la stessa dove Angelique Kerber si allenò poche settimane prima di diventare, nel 2011, la prima tedesca in semifinale di uno Slam nel nuovo millennio. È rientrata che si trovava alla posizione 667, un mese dopo era nel tabellone principale del Roland Garros dopo aver disputato solo 3 tornei ITF. A Parigi, nel 2011, raggiunse per la prima volta una seconda settimana di uno Slam. Fu anche l’unica, prima di questo anno. La croata non solo si è clamorosamente ripetuta proprio al Roland Garros, rifilando un netto 6-1 6-1 ad una che sul rosso ci sa fare (Anastasija Sevastova) ma è stata sul 5-3 e 30-0 nel terzo set contro Elina Svitolina prima di bloccarsi e subire il rientro della croata. Poi di nuovo a Wimbledon, dove si è qualificata rimontando da 2-5 nel terzo set ed annullando 6 match point ad Aleksandra Krunic e ha battuto al primo turno Daria Gavrilova per 10-8 al terzo. Questa volta, dopo il terzo turno vinto contro un’altra rientrante come Zarina Diyas (che è anche valso il rientro in top-100 3 anni dopo l’ultima volta), è stata superata da Rybarikova. Fin lì il suo record stagionale era di 27 vittorie e 5 sconfitte. Anche per lei, come per la slovacca, la sua stagione da lì in avanti ha rallentato il suo corso frenetico, ma di nuovo allo US Open ha giocato alla pari contro Agnieszka Radwanska e c’è attesa di capire cosa sarà per lei il 2018, quando rientrerà (almeno) nei tornei Slam senza dover passare dalle qualificazioni e con zero punti da difendere fino a giugno.
Oltre a loro, ci vorrebbero menzioni speciali anche per: Ajla Tomljanovic, quasi fuori dalle prime 1000 a fine febbraio ed ora già al numero 130 del mondo dopo 13 mesi di infortunio, un intervento alla spalla e i tanti dubbi sulla carriera; Patty Schnyder, che a 39 anni è rientrata in top-150 e potrà provare le qualificazioni negli Slam e cercare, nell’anno dei 40, quello che per lei sarebbe un risultato enorme come il rientro nei 100; Vera Zvonareva, rientrata quando nessuno se l’aspettava verso aprile e già a ridosso delle prime 200; ma soprattutto
Allie Kiick e Victoria Duval – due ragazze coetanee (classe 1995), sfortunatissime. Il loro calvario è iniziato nello stesso momento: estate 2014. A pochi mesi di distanza entrambe scoprono due gravi problemi: il cancro per Victoria, un problema congenito alle ginocchia per la seconda. Se “Vicky” riuscirà a guarire dal suo diavolo in pochi mesi, ma pur continuando a giocare i risultati non arrivavano (e gli infortuni, qua e là, non le davano tregua), la seconda ha proprio dovuto alzare bandiera bianca dodici mesi più tardi, quando anche a lei venne diagnosticato un cancro alla pelle. Molto amiche, sono rientrate nella primavera di quest anno: Duval è risalita fino alla top-300, Kiick ripartendo completamente da zero e dopo 2 anni di totale inattività è riuscita a fine anno a centrare la top-400. Hanno fatto molto parlare di loro perché allo US Open si sono incontrate nell’ultimo turno di qualificazioni in un match che aveva tutti gli aspetti dell’abbinamento crudele, ma loro sono riuscite a viverlo come qualcosa di speciale, che ha mostrato quanto fossero legate anche nel momento in cui Duval ha dovuto ritirarsi, con Kiick che la accompagnava fuori dal campo sostenendola.
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