Dal nostro inviato Salvatore De Simone
È mattina presto mente faccio colazione in hotel prima di recarmi alla St. Jakobshalle. Come spesso capita a chi viaggia fuori dall’Italia, sento chiacchierare qualcuno nella lingua del Sì: in questo caso sono due coppie di mezza età e ad un certo punto mi si avvicina una delle signore (la quale sa che sono un connazionale perché mi ha sentito parlare al telefono) per chiedermi se posso rivolgere al receptionist alcune informazioni sulla camera dato che teme di non essere stata compresa fino in fondo. Dopo aver fatto conoscenza faccio ai quattro la classica domanda: “State andando a vedere Basilea”? E loro mi danno la risposta ancora più prevedibile e scontata (come a dire ‘ma che domande fai’?): “No, stiamo andando a vedere Federer”. Ed è l’unica risposta possibile in questi giorni nella bella città svizzera.
Incredibile come nella settimana del torneo qui quasi tutto giri intorno a Federer: come se la nobile e antichissima storia della città sul Reno scomparisse per qualche giorno facendo spazio all’epica sportiva del suo figlio ora più noto. Quando poi si sta dentro la Jacobshalle non quasi ma praticamente tutto è incentrato su Roger; gli altri tennisti (e che tennisti solo per citarne due: del potro e Cilic) sono null’altro che comparse, a volte che danno anche fastidio come alla ragazza che nel mezzo di un match niente affatto disprezzabile come quello tra Cilic e Fucsovics è esplosa con un ‘Roger wann kommst du?’ (Roger quando arrivi?).
David Foster Wallace aveva parlato di esperienza religiosa nel suo citatissimo articolo scritto nel 2006 riguardo a Roger Federer in un match di Wimbledon: come povero scrivente di queste quattro righe non mi permetterò certo di voler gareggiare con il compianto David e con altre centinaia di prosatori che hanno raccontato le gesta dell’elvetico più amato dai tempi di Guglielmo Tell (Gianni Clerici dixit) nelle sue performance dal vivo. Mi limiterò a dire, molto terra terra e lasciando da parte la religione, la spiritualità, la mistica ecc, che osservare da vicino un match del tennista svizzero è un’esperienza unica. E lo è ancora di più quando lo si ammira nella sua città natale dove affermare che lui è come un Dio non può che essere un ovvio eufemismo.
Chi ha visto una sua partita dal vivo sa di cosa sto parlando: lo stadio prima quasi vuoto e poi riempito di colpo, quell’attesa irrequieta di vederlo apparire sullo schermo al momento di rilasciare l’intervista subito prima di entrare in campo, le urla quando finalmente mette i piedi nell’arena, il silenzio irreale quando deve affrontare un’insidiosissima palla break, la gioia inebriante di tutta la tifoseria per lo scampato pericolo grazie ad un colpo magico come quel rovescio ieri contro Mannarino; gioia messa in mostra da tifose (tra le quali alcune signore di non giovane età) che ti distruggono i timpani se sei seduto appena sotto di loro. Tutto ciò non è nuovo a chi ha già assistito di persona ad una performance di Federer: ma gustarsi un suo match a Basilea è vedere qualcosa di ancora più esagerato, diverso, folle; come quegli svizzeri di solito composti ma che si trasformano in forsennati se si tratta del loro idolo. Un rito e nello stesso tempo una festa in cui ogni sensazione che può regalare lo sport si manifesta in maniera naturale e che non può non coinvolgere. Un evento che avrebbe bisogno di un Wallace o di un Clerici per essere descritto in modo efficace; ma non essendo nessuno dei due e confidando nella misericordia dei lettori, non posso fare altro che consigliare di vedere una partita di Roger Federer a Basilea. Perché ne vale davvero la pena.
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