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Ace Cream. Nadal e Federer, la quadratura del tennis

Pari sono. Al momento è così. E non è una baruffa fra bambini, una ripicca, o il frutto di un equilibrio ricercato con pervicacia tutta democristiana, manuale Cencelli alla mano. Sono pari ed è il succo di una stagione impensabile e insieme immensa, condotta da cima a fondo all’insegna della riscossa, della sfida all’impossibile, del ribaltamento di valori che sembravano consolidati. La stagione dei ritorni si divide in parti uguali, due Slam a testa, due Masters 1000 per uno, una finale Slam da una parte, una finale Masters dall’altra. E tutti gli altri a guardare. E a incazzarsi, come i francesi quando passava Bartali. Chi era a sostenere che “senza l’esperienza vissuta degli opposti, non può esserci l’esperienza della totalità”? Non importa. Quello che conta è il senso della frase. Rafael Nadal e Roger Federer hanno ricreato in questa stagione un tutt’uno, pieno e compiuto. Una globalità universale. Forse per l’ultima volta. Ma è stato bello vederla formarsi a gennaio con la finale di Melbourne, crescere nei Masters americani ed europei, espandersi fra Parigi, Wimbledon e New York.

Non conta la finale con Kevin Anderson. Troppo facile. E non conta il percorso compiuto da Rafa in questi Open, nel quale gli ostacoli più alti non superavano il numero 27 della classifica. Se la visione d’assieme reclamava un unico tassello per assumere forma definitiva, Nadal lo ha posto in essere ed è questa l’unica cosa da tramandare nei libri di storia del tennis. La sua è una vittoria che dà un senso di pienezza composta e ineccepibile a tutta la stagione.

Federer ha commesso un errore che non è da lui, e molto bene il nostro sito lo ha rilevato (per primo) con l’articolo di Luigi Ansaloni pubblicato nei giorni scorsi. Ha compiuto un peccato d’ingordigia, e l’ha pagato. Si è lasciato catturare da voglie spettacolari, che non erano in cima alla lista delle cose da fare. Tornare numero uno «anche solo per una settimana». Provare davvero a vincere tutto. Estatico come un pupo che si sazi del latte materno. Ci aveva salutato a Wimbledon ammettendo che il suo team lo aveva consigliato bene, e quanto gli avesse giovato evitare il Roland Garros per essere al massimo a Wimbledon. Una rinuncia dolorosa, disse, ma intelligente. Poi ha fatto di testa sua. Doveva riposarsi una settimana in più e si è presentato a Montreal senza tennis nelle gambe. Ha spinto e si è fatto male alla schiena. La sua tournée americana è finita lì. Contro del Potro, sebbene in ripresa nel fisico, ha pagato i dubbi sollevati dalle partite iniziali, facili sulla carta ma quasi compromesse dalle sue condizioni. «Mentalmente, fisicamente e tecnicamente non ero all’altezza». Chapeau, l’autocritica fa sempre bene. Anche se Roger non l’ha condotta sino in fondo. Avrebbe dovuto aggiungere: «Sono stato un fesso».

Quei tre avverbi hanno fatto invece da cerniera alla prova di Rafa, che da quattro anni non si vedeva così sicuro e spigliato sul cemento. Date le condizioni, il primo posto in classifica non è stato mai realmente in discussione. La differenza non la sta facendo lo Slam americano, quanto il Roland Garros che Roger non ha giocato. Vecchia storia… Senza i punti sul rosso, difficile diventare numeri uno.

Roger ci riproverà nei mesi del tennis indoor. Dopo la Laver Cup giocherà Shanghai, Basilea, Parigi Bercy e il Master a Londra. Le scelte di Rafa non dovrebbero essere dissimili, la spettabile ditta Fedal, la Federer-Nadal Corporation, si muoverà di concerto. Tre mesi ancora da dividere con loro. Con goduria.

Daniele Azzolini

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Daniele Azzolini

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