Ci sono voluti ventiquattro anni, ma finalmente anche in Italia abbiamo la possibilità di leggere “Days of grace”, la toccante autobiografia che Arthur Ashe scrisse con il supporto del critico letterario Arnold Rampersad. Negli Stati Uniti fu data alle stampe già nel 1993, poche settimane dopo la prematura scomparsa del campione nato a Richmond, in Virginia; dalle nostre parti arriva ora, con la versione letterale del titolo “Giorni di grazia”, grazie alla traduzione curata da Silvia Mercurio per Add Editore.
Il racconto di Ashe tocca in modo abbastanza superficiale il suo percorso da tennista, nel corso del quale fu capace di vincere US Open (1968), Australian Open (1970) e Wimbledon (1975), quest’ultimo in una storica finale contro Jimmy Connors. Maggiore spazio è riservato al periodo trascorso in qualità di capitano del team a stelle e strisce di Coppa Davis nei primi anni Ottanta, con interessanti approfondimenti del rapporto instaurato con i giocatori, su tutti quel John McEnroe di non semplice gestione che all’epoca era all’apice della carriera.
Buona parte della narrazione, però, esula dallo sport e va a concentrarsi sulle battaglie condotte da quest’uomo straordinario contro l’apartheid e ogni tipo di discriminazione, fino a giungere all’ultimo e più delicato capitolo della sua vita, quello che l’avrebbe condotto alla morte ad appena quarantanove anni. Ashe, cardiopatico, contrasse il virus HIV in seguito a una trasfusione di sangue infetto dopo un’operazione a cuore aperto e pian piano dovette abituarsi a convivere con la malattia.
“Sono stato un bambino delicato”, scrive in uno tra i passaggi più significativi, “ma per i primi trentasei anni della mia vita, fino al 1979, ho coltivato l’immagine di me stesso come un essere indistruttibile, se non addirittura immortale. Quella sensazione non venne scalfita dall’operazione al tallone del 1977, ma dopo il mio primo attacco di cuore, ho vissuto con la consapevolezza della mia mortalità. Perciò l’Aids non mi ha devastato. L’Aids non era altro che qualcosa di nuovo da affrontare, qualcosa da capire e cui rispondere, qualcosa da accettare come una sfida, come se avessi potuto sconfiggerlo. Ci si può preparare alla morte. […] Nel frattempo, prima della fine, si può fare molto per dare alla vita più senso possibile”.
Nell’aprile del 1992 Arthur fu “costretto” a rivelare al mondo di aver contratto il virus perché la voce girava da qualche tempo e il quotidiano “USA Today” era pronto a lanciare la notizia in prima pagina. La scoperta della malattia era avvenuta nel 1988, ma fin lì Ashe aveva cercato di proteggere la sua privacy e soprattutto quella della famiglia (composta dalla moglie Jeanne e dalla figlia Camera, fortunatamente non contagiate). A quel punto, però, decise di prendere in mano la situazione e parlare lui stesso della cosa in pubblico. Ne scaturì un ciclone mediatico, ma per lui forse, in qualche maniera, si trattò anche di una sorta di liberazione. Negli ultimi dieci mesi della sua esistenza l’ex campione seguitò a dedicarsi alle proprie lotte sociali, rivelando ulteriormente, seppur con la consueta discrezione, il temperamento che l’aveva sempre contraddistinto.
Il libro si chiude con una lettera alla figlia Camera, di soli sei anni, scritta il 20 gennaio 1993, diciassette giorni prima di morire. “Non essere arrabbiata con me se non sarò lì di persona quando avrai bisogno di me. Non desidererei altro che restare con te per sempre. […] Ovunque sarò, quando ti sentirai demoralizzata e stanca di vivere, o quando inciamperai, cadrai e non saprai se riuscirai ad alzarti, pensa a me. Sarò lì a guardarti, a sorriderti e a incoraggiarti”.
Impossibile non commuoversi dinanzi a un tale intenso messaggio d’amore paterno. A coinvolgere, e indurre alla riflessione, è però ogni pagina del libro, intrisa di profonda umanità e determinazione nel non chinare il capo di fronte alle avversità. Perché, come dichiara nella quarta di copertina Yannick Noah, uno che gli deve parecchio, “Arthur era molto più grande del tennis. Era un guerriero”.
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