Nell’agosto 1914 la bella epoca era finita.
I colpi sparati meno di due mesi prima a Sarajevo da Gavrilo Princip si erano moltiplicati all’infinito e nel soffio di qualche settimana la parola sarebbe passata all’artiglieria pesante.
La Prima Guerra Mondiale poteva essere evitata ma non lo fu. Quattro anni e diciassette milioni di morti dopo quel vecchio mondo rassicurante non esisteva più.
A quel tempo il tennis stava ancora costruendo sé stesso. Wimbledon, US Championships e Coppa Davis erano i vertici di uno sport ancora giovane ma che aveva già trovato i suoi eroi sulle opposte sponde dell’Atlantico. I Renshaw, i Doherty, Malcolm Whitman e William Larned stavano portando il gioco dalle nebbie degli incerti inizi ad un futuro glorioso.
“Una storia d’altri tempi” – quindi – “di prima del motore” come recita la strofa di una nota ballata. Ma forse per questo ancor più degna di essere ricordata.
Il palcoscenico è forse ancor più nobile che a Wimbledon e i protagonisti sembrano usciti dalla penna di uno sceneggiatore di Hollywood, tanto sono diversi e lontani fra loro.
Finale di Coppa Davis, 13/15 agosto 1914, si gioca sui nuovi campi in erba del West Side Tennis Club di New York
Da una parte gli Stati Uniti d’America, campioni in carica e padroni di casa. Per trovare gli altri bisogna ruotare il mappamondo, sotto il nom de plume di Australasia si celavano infatti Australia e Nuova Zelanda, ovvero la squadra dominante di quegli anni. Del resto con quei due…
Tony Wilding era l’uomo di ferro. Nato nel 1883 a Christchurch, si era stabilito in Inghilterra per studiare ad Oxford ma fra un esame e l’altro trovò il tempo di vincere Wimbledon tre volte di fila e in mezzo tutto il resto. Era un tennista costruito ma eccezionale, capace di stare in campo ore sotto il sole a stritolare l’avversario con i suoi drive lunghissimi.
Il suo compagno però era un’altra cosa. Uno di quelli che fanno saltare i nervi perché ciò che tu impari a prezzo di fatica a lui riesce naturale. Uno con il dono. Un mago mancino.
Norman Brookes nacque ricchissimo lo stesso anno del primo Wimbledon ma la camicia con cui venne al mondo non gli bastò mai. Nel corso di una vita lunga “et plena rerum” come direbbero i latini, si tolse lo sfizio di essere il primo non britannico sul trono del Centre Court nel 1907, sul quale era poi rimasto per prendersi anche la Davis.
Nei primi anni del secolo era un tennista qualunque, un baseliner che faticava ad emergere in patria.
Poi l’incontro con il dottor Wilberforce Eaves gli cambiò la vita. Sotto quella guida bastano pochi mesi al suo talento innato per creare un gioco totalmente nuovo. Impara il servizio twist americano nel volgere di ore e dietro quello si precipita a rete per chiudere volée di sensibilità eccezionale. Comincia a colpire d’anticipo per rubare tempo nello scambio, i colpi diventano lunghi e accurati, il controllo di palla totale. Per tutti diventa “the wizard”, la sua bacchetta è di legno leggero, pesa dieci once e fa mirabilie. Intuito e riflessi felini erano poi guidati da una testa da combattente. Superbo di natura, ora poteva essere il migliore.
Perde netto la finale di Wimbledon 1905, troppo netto sebbene di là ci fosse un Laurie Doherty agli ultimi bagliori ma sembra ci fosse di mezzo un infortunio. Quando due anni dopo riattraversa l’oceano non ce n’è per nessuno, Arthur Gore è annientato in una finale che non dura lo spazio di un mattino solo perché si gioca di pomeriggio. Il suo secondo Wimbledon, non meno incredibile del primo, giunge proprio nel 1914, a sette anni di distanza. Probabilmente solo perché l’orgoglio del grande uomo era stato solleticato dalle tre vittorie consecutive dell’amico Wilding. Smessi i tre pezzi e la lobbia da uomo d’affari, un Brookes trentasettenne attraversa umilmente il torneo all comers. La sua magia è ancora forte ma nella semifinale contro il tedesco Otto Frontzheim è una chiamata sbagliata a salvarlo dalla sconfitta. La sua profezia ora può avverarsi. “Dicono che Wilding sia imbattibile, sono venuto a vedere se è vero” aveva infatti dichiarato al suo sbarco in Inghilterra.
Lo batte, o meglio, lo ipnotizza in tre set.
Gli statunitensi avevano riconquistato la Coppa di Dwight solo l’anno prima, dopo le affermazioni nelle prime due edizioni, e non erano disposti a farsela rubare a casa propria.
Maurice McLoughlin era deciso a vendere cara la pelle. Era nato a Carson City, Nevada, nel 1890, ai tempi del bandito Jesse James e di “Wild Bill” Hickok. E anche Red Mac a suo modo era un pistolero, per certo una sua prima di servizio poteva mandarti all’ospedale. Si era formato sul cemento californiano e il suo tennis era di una potenza devastante. Battuta, gioco di volo e smash erano i cardini di un arsenale che era diretta conseguenza della sua esuberanza fisica. Cinque finali in sei anni ai campionati statunitensi, ivi compresi i due titoli 1912 e 1913, e una finale a Wimbledon ne certificano la grandezza. In campo i capelli rossi spiccavano, era veloce come i suoi colpi e per tutti divenne “The Red Comet”.
Quando giovedì 13 agosto i due si affrontano il mago va per i trentasette, la cometa ne ha compiuti ventiquattro a gennaio. L’Australasia si è aggiudicata il primo punto perché Wilding ha stritolato in tre spietati set Richard Norris Williams, gran tennista e discendente di Benjamin Franklin che sopravvisse al naufragio del Titanic.
McLoughlin non conosceva la paura, il suo gioco tutto attacco e coraggio era lì a mostrarlo e quel pomeriggio scese in campo per vincere. Oltre il net però c’era un uomo che sapeva fare di tutto.
Ne venne fuori un primo set da leggenda, il migliore mai visto o giocato fino a quel momento a memoria d’uomo. Uno dei più appassionanti di sempre, che solo i dodicimila eletti che gremivano le tribune ebbero la fortuna di vivere.
Con l’insalatiera d’argento che occhieggia a bordo campo, Brookes vince il sorteggio e tiene il suo primo servizio a zero con tre passanti consecutivi. La maratona è cominciata.
Norman si fida dei riflessi per contrare d’anticipo le cannonate in battuta di McLoughlin, per questo avanza di un passo dentro il campo in risposta ma sulle prime la tattica non dà buoni frutti. Anche la cometa è in gran giornata, azzarda anche con la seconda palla e nei suoi turni è intoccabile. Nel settimo gioco minaccia lui per primo con due risposte, la prima sulle stringhe, la seconda in cross, che lo portano ad un promettente 0-30. Ma il momento non è quello.
Gli stili sono molto diversi e questo aggiunge pepe allo scontro ed esalta sempre la folla. McLoughlin è un soldato in missione, il suo obiettivo è la conquista della rete che difende standoci col naso sopra. Brookes ha più tennis nel suo braccio sinistro, può anche costruire gioco spostando l’avversario, per poi attaccare in controtempo con demi-volée giocate dalla riga del servizio.
La differenza d’età è scomparsa insieme agli errori, in campo si vede solo gran tennis, ogni punto guadagnato con maestria. Un dato: si scontrano i due servizi migliori del mondo ma al termine di un primo set chilometrico si conteranno solo due doppi falli. Uno per parte.
Il punteggio non si schioda dall’equilibrio e Brookes deve ricorrere un paio di volte ai vantaggi per tenere la testa. I giochi scorrono via veloci, l’inventore del tie break non è ancora nato, la fine lontana. McLoughlin colpisce alla grande, sembra avere meno problemi. Mai fidarsi, però.
Jack Kramer diceva che un gran battitore ha sempre una possibilità in più per uscire dalla buca e lo statunitense conferma questa verità nei momenti chiave del primo set.
Sul 7-8, 30 pari piazza due aces provvidenziali ma l’attacco vero e proprio deve ancora arrivare.
Il mago sa che deve chiudere in fretta per vincere, aumenta ritmo e qualità dei colpi e nel diciottesimo gioco sembra fatta. McLoughlin serve tre prime palle ma un rovescio incantato d’incontro, uno strettissimo cross di dritto e un banale errore lo mandano sotto uno 0-40 che è un macigno. Non fiata nessuno mentre Red Mac si appresta a servire da sinistra. Dopo un minuto scarso però le tribune esplodono, quando con un ace il beniamino di casa completa un’irreale serie di cinque punti vincenti che lo riportano in pareggio. Ora è diventata una disfida medievale ma la violenza dei colpi rimane sempre seconda all’accuratezza e al piazzamento e ogni errore è provocato solo dall’intraprendenza avversaria. Il tempo scorre inesorabile, McLoughlin cresce in sicurezza e per poco il colpo di coda del campione australiano non lo sorprende.
In vantaggio 13-12 e con le energie che si riducono a lumicino, il mago trova chissà dove la forza per sparare due passanti lungolinea che gli valgono un prezioso 15-40, altri due set point consecutivi dopo i tre mancati in precedenza. Ma la luce si spegne di colpo.
Due rari errori vanificano l’occasione, due assi di Maurice l’ultimo assalto.
McLoughlin non si ferma, è sopravvissuto troppe volte per non sentirsi invulnerabile e non cederà più un punto in battuta. Lo smisurato orgoglio non basta a Brookes, che ora sente tutto il peso della fatica e delle occasioni mancate. Dopo cento minuti di battaglia perde il suo unico servizio in una dura lotta ai vantaggi e in risposta nulla può. Quando Norman riesce solo a sfiorare la prima esterna che consegna quel set all’avversario sa che quella è la fine dell’intero incontro. Mezz’ora dopo è tutto finito.
L’Australasia vincerà comunque la Davis, la quinta di quello strano reame del tennis.
Quando nel 1919, al termine della guerra, il mago chiude la storica epopea con la sesta Coppa il suo amico Tony Wilding non c’è più. Si era arruolato come volontario all’indomani della vittoria contro gli Stati Uniti e nella primavera del 1915 prestava servizio dirigendo l’artiglieria in una trincea francese di Neuve Chapelle. E si sa, le bombe non hanno pietà per nessuno, neanche a maggio.
13/08/1914
West Side Tennis Club, , New York
M. McLoughlin b. Norman Brookes 17-15 6-3 6-3
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