Uno degli elementi portanti della carriera di un tennista è la convivenza con il dolore fisico. I giocatori sottopongono il loro corpo ad uno stress molto intenso, dovuto sia alla quantità di partite giocate nel corso dell’anno solare, sia alla loro durata, sia alle differenti superfici su cui esse vengono giocate. A tutto questo si aggiunge la caratteristica intrinseca di uno sport fatto di scatti continui, cambi di direzione, carico elevatissimo su schiena, ginocchia, caviglie, polsi e spalle; il tutto correlato a picchi di tensione emotiva che certamente non aiutano i muscoli a lavorare in condizione di rilassamento. Gli obblighi istituzionali del giocatore spesso impediscono il rispetto del naturale tempo di riposo per recuperare in pieno dai piccoli infortuni e quindi la convivenza con una o più parti doloranti diventa la quotidianità per un tennista. Tutti i top player non mancano mai di ricordarlo e spesso anche nelle loto tenute in campo si possono notare fasciature, cavigliere, cerotti per le vesciche. Frequentemente, oltre al dovere nei confronti dell’ATP, è il giocatore stesso a non volersi fermare, magari perché dal punto di vista della performance è in un ottimo momento o perché il torneo in calendario è importante o sulla sua superficie preferita, oppure per difendere punti che ne comprometterebbero la posizione in tabellone negli eventi successivi. Gli esempi di questa situazione sono moltissimi, uno dei più famosi quello di Nadal contro Ferrero agli internazionali di Roma del 2008: chiunque ricordi la vescica sotto il piede del maiorchino non può non convenire che una persona normale quel giorno probabilmente non avrebbe nemmeno camminato. Ma quel Nadal poteva perdere con Ferrero solo per un problema fisico e andò in campo proprio perché la stagione sulla terra era “affar suo”.
Se una vescica sotto al piede può guarire in dieci giorni, quando l’eccesso di impegno causa un infortunio più grave, allora il problema per il tennista diventa molto complesso.
Cosa passa nella testa di un atleta al massimo della sua resa quando sopraggiunge un infortunio che lo costringe a un lungo stop? Come si argina la volontà di tornare in campo il prima possibile per non perdere troppo la propria forma, la classifica e il ritmo, ma nel frattempo i medici consigliano il riposo?
La situazione è abbastanza frequente, lo stesso numero uno del mondo attuale, Andy Murray, ha cominciato l’anno, dopo la travolgente scalata del 2016, con vari problemi fisici, infezioni di lieve entità inizialmente, e poi il gomito che lo ha costretto a fermarsi, con i tempi di recupero ancora non chiariti al pubblico. Certamente è un momento complicato da gestire per l’atleta e sul come possa affrontarlo lo abbiamo chiesto alla Dott.ssa Francesca Latella, psicologa, specialista nell’affiancare gli atleti nel loro percorso agonistico e, in generale, in Psicologia dello Sport.
Dott. ssa Latella, come si sostiene un atleta che si infortuna al top della sua prestazione?
L’infortunio di un atleta al top della sua prestazione rappresenta un fallimento importante lungo un percorso costituito da impegno e sacrifici. Da un punto di vista psicologico, è importante cercare di accogliere l’atleta nell’espressione del suo mondo emotivo, costituito da molteplici emozioni coesistenti in un stesso periodo di tempo. Spesso le emozioni, contrastanti tra di loro, portano il soggetto ad un conflitto interiore che lascia emergere pensieri di abbandono, di resa o ambivalenti, come ad esempio la voglia di dedicarsi ad attività collaterali alla propria attività sportiva. Sono elementi fondamentali, in queste occasioni, come in tutte quelle occasioni di grande crisi, la capacità di attuare un ascolto attivo e privo di giudizi, in modo tale che l’atleta possa esprimere il proprio disagio e lo psicologo possa accogliere, raccogliendo informazioni utili per evidenziare le aree di intervento e di conseguenza strutturare un progetto di intervento per la risoluzione della problematica presentata.
Come si convince l’atleta ad attendere tempi più lunghi rispetto a quelli desiderati?
Uno degli elementi fondamentali nella psicologia dello sport è la capacità di sviluppare il “Self Talk” (dialogo interno). Attraverso lo sviluppo di colloqui psicologici, si porta il soggetto all’espressione del desiderio di guarigione. Grazie all’ausilio di alcune tecniche psicologiche, come ad esempio l’imagery, l’ipnosi, lo psicologo può aiutare il soggetto a visualizzare la parte lesa del proprio corpo e a prenderne consapevolezza, non solo a livello fisico, ma anche a livello psichico, in modo tale da sviluppare un pensiero ed un dialogo interno che consente di ridimensionare il desiderio fantasmatico con il processo reale di guarigione.
Al momento del rientro, come può lo psicologo aiutare l’atleta a gestire la paura di farsi nuovamente male?
La paura è una di quelle emozioni che contraddistingue il rientro in campo da parte dell’atleta. Normalmente è possibile creare uno slogan o un mantra che, ripetuto nel tempo, può aiutare l’atleta a sviluppare emozioni rassicuranti, in modo tale che ogni qualvolta si presentino emozioni negative legate alla paura dell’infortunio, si possa sviluppare un ancoraggio alle emozioni positive attraverso lo slogan sviluppato durante il percorso con lo psicologo o un mantra rinforzato attraverso tecniche ipnotiche.
Lo psicologo ha dei mezzi per accelerare il recupero?
Certamente uno degli strumenti più efficaci per il recupero psichico e fisico dell’infortunio, in collaborazione con il fisioterapista è l’utilizzo sistematico dell’ipnosi che può essere attuata in studio, in campo o in spogliatoio, per visualizzare obiettivi, i punti di forza sui quali fare affidamento per migliorare le aree disfunzionali, sia a livello psichico che a livello fisico.
Se uno dei due, tra psicologo e fisioterapista, si rendesse conto che il rientro in campo è in anticipo rispetto al necessario, come si comporta?
Personalmente, credo che uno degli obiettivi della psicologia dello sport sia sviluppare nell’atleta il Self -Talk, di conseguenza, il soggetto dovrebbe essere in grado di comprendere quando è il momento giusto per rientrare in campo. Diversamente, lo psicologo può avvalersi di un colloquio individuale, in cui si espongono le perplessità e si analizzano le motivazioni emotive e cognitive che spingono l’atleta a voler rientrare prematuramente; insieme si potrà valutare la soluzione migliore per non vanificare il lavoro svolto fino a quel momento.
Queste poche domande evidenziano l’importanza che può avere tutto il team attorno al professionista per far sì che il recupero avvenga nel migliore dei modi e che il ritorno alle gare sia nel momento giusto per garantire buone prestazioni. Forse è in queste dinamiche che bisogna andare a trovare le ragioni di quando un tennista rientra con assenza di risultati o, al contrario, torna vincente come non avesse mai lasciato il campo, o addirittura più forte. Ovviamente come non pensare a Roger Federer? Certamente la gestione del suo infortunio al ginocchio è stata perfetta sotto ogni punto di vista, psicologico compreso, con il giusto calcolo dei tempi, fisici ed emotivi.
Anche saper aspettare, in fondo, è un segno dell’essere più forti.
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