È cominciato tutto a Wimbledon 2012. Roger Federer non giocava una finale Slam ormai da un anno. Agli Australian Open aveva perso in semifinale contro Nadal in quattro set, niente di nuovo, mentre al Roland Garros aveva perso ancora in semifinale contro Novak Djokovic, in una partita talmente brutta che quasi nessuno ricorda. Insomma: il numero 1 e il numero 2 della classifica erano Djokovic e Nadal, peraltro vincitori degli ultimi 10 Slam e Federer, l’ultimo a vincere uno Slam prima del duopolio, era diventato poco più che una valida alternativa.
A Wimbledon, però, succede qualcosa di inaspettato: Nadal, che nelle ultime cinque partecipazioni al torneo londinese aveva sempre raggiunto la finale, esce contro un tennista ceco quasi sconosciuto, Lukas Rosol. Tutti cominciano a pensare che Roger Federer possa di nuovo alzare il trofeo, tre anni dopo l’ultima volta, ma lo svizzero non sta benissimo: al terzo turno deve rimontare due set a Julien Benneteau, negli ottavi gioca praticamente da fermo contro Xavier Malisse. Sotto alla polo, Federer ha una maglia della salute: è il simbolo di un campione diventato umano come non mai che deve fare i conti con un fisico non sempre affidabile.
Passato il pericolo, Federer si riprende e quando arriva a giocarsela con Novak Djokovic e Andy Murray tira fuori il tennis dei vecchi tempi. 3-1 a Djokovic il venerdì e 3-1 a Murray la domenica, Federer torna campione Slam e numero 1 del mondo in un colpo solo. Per molti, Roger ha sfruttato l’ultima chance di vincere uno Slam: Djokovic e Murray hanno appena 25 anni, Nadal uno in più e nessuno pensa che possa davvero ripetere un miracolo come quello. I mesi successivi, con Murray che si sblocca anche nei Major e Nadal che vince addirittura sul cemento, non faranno che confermare tutto ciò. Poi arriva il 2014.
Lacrime sul centre court
Il 6 luglio del 2014 è in carica da qualche mese il governo Renzi, la Juventus ha vinto lo scudetto e Roger Federer torna in finale in una prova del Grande Slam due anni dopo l’ultima vittoria, Wimbledon 2012, e dove altrimenti? Non è un anno di novità quindi, e anche il tennis si adegua visto che a Milos Raonic e Grigor Dimitrov basta raggiungere la semifinale a Church Road per sentirsi appagati. Ma soprattutto, le sconfitte di questi cosiddetti giovani fanno sì che all’atto finale si confrontino i migliori, Federer contro Djokovic, l’attacco contro la difesa, la classe contro la forza. Federer è arrivato alla seconda settimana con il suo classico cammino su erba, senza cedere un set ai vari Lorenzi, Muller, Giraldo e Robredo. Contro Wawrinka, ai quarti di finale, ha dovuto rimontare un set, ma contro Milos Raonic tira fuori il meglio di sé: un break per set e nona finale a Church Road.
Il 6 luglio Roger ha 34 anni, sette in più di Djokovic, che è all’apice della sua carriera e che, grazie a un certo Nick Kyrgios che ha battuto con sfrontatezza il n.1 del ranking Rafael Nadal, dal lunedì seguente sarà proclamato nuovo numero 1 del mondo, qualunque sia il risultato della finale. Federer si ritrova ancora una volta sul campo che lo aveva consacrato campione sette volte, più di tutti ovviamente, e il suo pubblico gli chiede solo di ripetersi un’altra volta, l’ultima volta. Un altro Slam, un altro Wimbledon e i suoi fan promettono, mentendo, di accontentarsi. Promettono che solo con il titolo Slam numero 18 potranno indorare l’amara pillola del ritiro, che in molti gli consigliarono già nel 2013, e che prima o poi arriverà.
Il primo set è pura estasi tennistica: così si batte, così si risponde, così si fanno le volée, se sei in grado di farle. Tutto è lineare, così semplice da sembrare banale. Il Federer primo della classe vince il primo set solo al tiebreak anche se gioca perfettamente. Novak si spaventa, nessuno del pubblico tifa per lui, e chiama un MTO più per paura che necessità. Ma diamine, è sempre il numero uno del mondo, e quando chiude il secondo set per 6-4, dopo aver sfruttato una partenza sprint, a mettere paura è lui questa volta.
Federer oggi è sceso dal quadro che lo immortala nel fulgore della sua carriera, una tela che lo ritrae più giovane mentre vola sul prato verde di Wimbledon. La sua palla esce dal servizio e atterra ogni volta in un punto diverso a velocità diversa tanto che anche il miglior ribattitore del mondo fatica a rimandarla di là. Arriva il game perfetto, Roger salva una palla break con il servizio, però perde il tiebreak come non avrebbe mai dovuto perderlo, per colpa di due tiri giocati con sufficienza. È finita, no? Ha 35 anni, è sotto di un set contro il numero uno, dovrebbe fermare il tempo per vincere al quinto set.
Quello che Djokovic – e il pubblico – ignora, è che Federer lo ha già sospeso, il tempo. In questo caldo pomeriggio di luglio Federer è scappato dalla logica che lo vuole inerme di fronte la gioventù altrui. Break, contro break, nel quarto set nessuno sembra avere in mano questo set, questa partita. Non sembra esserci un filo logico nel match, e così arriva un matchpoint per Djokovic. Ma il servizio vincente di Roger con cui lo annulla deriva direttamente dal passato glorioso di questo irripetibile tennista.
Chissà cosa scatta in testa a Federer, traslatosi in quel momento da una delle sue qualsiasi edizioni vincenti su quello stesso campo. Ma è una versione così bella che nessuno può vivere senza provare emozioni, senza muoversi, senza urlare, senza mordere il cuscino. Lo slancio con cui chiude il quarto set portando al quinto set la contesa è il rifiuto della resa, è voler battere il tempo, per un’ultima volta.
C’era paura in campo, forse più nella metà campo di Djokovic che in quella di Federer. Arrivavano palle break, per l’uno e per l’altro, ma entrambi riescono a tenere il match in parità. A dieci minuti dalle quattro ore di gioco questo ragazzo di 34 anni ignora le chiamate di Crono, che vorrebbe farlo tornare lì dove lui non vuole stare. “Ancora un’altra volta, questa volta manca solo un set”, sembra di sentirlo mentre fa rimbalzare la pallina sul terreno per poi lanciarla in alto verso l’Olimpo e poi scagliarla in basso verso il prato di Church Road: è Federer la chiesa oggi. Al servizio sotto per 4-5, qualcosa si rompe. Si è fatto tardi, Crono questa volta alza la voce. Si prende il servizio, e Federer rimane smarrito in campo. Djokovic vince il titolo, Federer quasi diventa immortale. Tornerà a perdere contro il tempo prima che con altri, ma non smette di cercare la strada verso un’altra possibilità, un’altra ultima volta. Ce n’è ancora di tempo.
La rivincita
L’anno in cui Dio decise di scendere in terra personalmente invece di mandare il figlio. L’anno in cui nessuno riuscì a credere ai proprio occhi. L’anno in cui Federer arrivò in anticipo. Di una partita. È il 10 luglio 2015, il sole splende e – dice il cronista – le ragazze con l’ombrellino si avviano al club a prendere il primo e uno degli ultimi soli dell’anno. È il giorno della semifinale tra Andy Murray e Roger Federer. Lo svizzero fin lì ha perso un set ed un servizio, anche se in partite diverse. Murray, dopo il mistero dell’anno prima, sembra pronto a prendersi una delle varie rivincite che ha disseminato in giro per il mondo. Tra i soliti strepiti e qualche furbata, come contro Seppi al terzo turno, lo scozzese non è mai sembrato tanto vicino a Federer come in questa partita.
Si vocifera che Murray possa essere il favorito e che, forse, il pubblico non ripeterà la discutibile gazzarra dell’anno prima, quando impazzì letteralmente durante il “momento Federer” del quarto set, da 2-5 a 7-5 come se niente fosse, come se Djokovic fosse un tennista come tanti. Stavolta c’è Murray, niente isterie, anzi. Comincia a servire Federer e concede una palla break. Non succederà mai più nella partita. Murray farà una grande partita ma Federer pensa cose assurde e le realizza. Ad un certo punto sembra non crederci neanche lui.
Torna in mente l’illuminazione di un ex tennista, non troppo fantasioso, che disse al compagno di telecronaca: «Lo vedi quel colpo? Bene, quel colpo non si può fare, non è possibile». Federer semina impossibilità per tre set, tanti ne basteranno per far dire a Murray che se la giornata è così tanto vale fermarsi a guardare. Però. Però è venerdì e la finale a Wimbledon si gioca la domenica. Djokovic ha rischiato di perdere con Anderson agli ottavi di finale, ma un po’ il buio un po’ una ritrovata attenzione, consentono al serbo di risalire da due set sotto.
Prima dello show di Federer, Djokovic ha battuto Gasquet ma non ha impressionato particolarmente. Poche cose sono chiare come una: se Federer gioca come contro Murray è fatta. Poche delusioni forse sono state più cocenti. Federer gioca bene il primo set e lo perde al tiebreak. Gli succede qualcosa che non gli succedeva da anni, forse dai tempi di Nadal: prende un break di vantaggio e, lui che aveva perso il servizio una sola volta nell’intero torneo, lo restituisce subito. Ha pure set point sul 6-5 ma una volta arrivati al tiebreak tutti capiscono come sarebbe finita.
Il secondo set sembra segnato, Federer non sfrutta un paio di palle break e poi si trova a dover annullare lui un set point nel decimo game. Ci riesce e si trascina al tiebreak. Improvvisamente saltano i servizi. Dei primi 5 punti, 4 li vince chi risponde, ma alla fine Djokovic arriva sul 6-3. Federer ritrova il servizio e sale fino al 5-6, poi si inventa una risposta che lo porta sul 6 pari. Il servizio torna ad essere decisivo fino al 9 pari, quando a Djokovic riesce un altro mini break. Incredibilmente Federer trova il modo di recuperare e addirittura andare a servire sull’11-10. Chiude il set, uno pari e partita che sembra aperta. Sembra. Perché evidentemente l’energia dello svizzero si esaurisce in quel tiebreak. Djokovic non rischia più nulla, sul suo servizio non si gioca più. Break a terzo game e set chiuso. Il quarto va allo stesso modo, con Federer in chiaro debito d’ossigeno che fatica sempre di più a tenere la sua battuta e Djokovic che cresce e cresce. Fino al 6-3, col doppio break, che chiude il set, la partita e l’ultima volta che Federer poteva vincere Wimbledon.
Il cammino perfetto
Gli US Open 2015 di Federer cominciano contro Leonardo Mayer, uno che un anno prima aveva addirittura avuto un match point al cospetto del Re. Sono i mesi della SABR, che Federer ha sfoderato per la prima volta a Cincinnati, torneo nel quale ha dominato gli avversari, compreso Novak Djokovic. Mayer raccoglie cinque game e si dice che servirà aspettare almeno gli ottavi per farsi un’idea del livello di gioco del numero 2 del mondo, da alcuni mesi l’unica alternativa a Djokovic, visto che Nadal e Murray sono alle prese con qualche noia fisica.
Ma il ciuffo di Federer, fino alla finale, non si scomporrà praticamente mai: lascia quattro game a Darcis nel secondo turno, undici a Kohlschreiber, ad Isner permette di arrivare a 5 in uno dei due tie-break che giocano, Gasquet vince tre game in più di Darcis e infine a Wawrinka, campione del Roland Garros in carica, concede di arrivare al massimo a quattro. Cinquantadue game in diciotto set, un dominio clamoroso e che a Federer non capitava da tempi che sembravano ormai andati per sempre, quando la concorrenza era ridotta ad una specie di pallido sfondo che lui annichiliva con una superiorità imbarazzante.
Dall’altra parte, in finale, c’è Novak Djokovic, che ha perso due set e al di là dei punteggi non sembra imbattibile. A Cincinnati, qualche settimama prima, ha potuto fare ben poco e nonostante abbia vinto la semifinale Slam col punteggio più netto della storia degli US Open, non è così favorito come dovrebbe. Ma quando scende in campo per la prima finale a New York dopo sei anni, Roger Federer è tesissimo. Forse si è convinto che è davvero l’ultima volta: perde due volte il servizio nel primo set, lui che l’aveva perso due volte in tutto il torneo. Il 6-4 del primo set fa da prologo ad un match pieno di rimpianti, quello in cui il dato sulle palle break – 4 su 23 – giustifica un cliché che per una volta non è bugiardo.
Qualche mese dopo, dopo un’altra sconfitta contro Djokovic, Federer annuncia che ha subìto un’operazione chirurgica e nelle settimane a venire le sue apparizioni sul campo diventeranno sempre più sporadiche e malinconiche. Dopo Wimbledon, Federer decide di non giocare più a tennis per sei mesi. Vuole tornare per qualche altro anno, dice, e quindi deve prendere questa dolorosa decisione. Vuole regalarsi un’“ultima volta”. Chissà se perfino una persona così sicura di sé avrebbe potuto immaginare quanto poco ci avrebbe messo ad arrivare, quell’ultima volta.
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