Cinque giorni. Il tempo di niente, neanche una settimana. Così poco è trascorso dalla nascita di Juan Martin del Potro quando da un’altra parte del mondo, a Medjugorje, è nato Marin Cilic.
Millenovecentottantotto, anno di grazia. Due futuri campioni US Open, due amici e rivali, due personaggi così diversi tra loro. Sono sembrati un po’ più simili domenica, quando proprio durante i primi giochi di un match fondamentale, si sono mostrati, uno dopo l’altro, esempi di sportività: il servizio di Cilic incolpevolmente finito addosso alla piccola raccattapalle che cerca di non fare una piega ma le lacrime scorrono da sola, allora Juan Martin se ne accorge e va a soccorrerla, le consiglia di fermarsi. Cilic che dovrebbe ribattere la prima di servizio, come ordinato da Pascal Maria, comunica che no, servirà la seconda perché è giusto che sia così. C’era del buono nell’aria tra Tandil e Medjugorje, quel giorno: attraversava il globo terracqueo un’insolita aria pacifica di fine settembre.
Torneo dell’Avvenire 2003 ed Orange Bowl, anno 2002: i ragazzi hanno 14 anni, entrano in quella fase maschile in cui non sai ancora chi sei e cosa sei, figurarsi un tennista. Eppure le identità erano abbastanza visibili, con il senno di poi. In entrambe le finali dei più importanti tornei giovanili a prevalere è del Potro, è sempre del Potro. Fisicamente sono già alti, potenti, servono entrambi bene. Ma noti chiaramente chi ha la faccia del cattivo (in campo, fuori neanche a parlarne) e chi no.
Sono entrambi riservati, ma come ebbe a dire Rino Tommasi, raccontando quanto riferito da vecchi colleghi argentini durante questi anni di giovani speranze: “Juan Martin vincerà, con tutti i suoi difetti e la sua indolenza, perché è troppo figliodibuonadonna per non riuscirci”. In spagnolo si dice in altro modo, ma non stiamo qui a sottilizzare.
Ha vinto del Potro, ha vinto subito, ha vinto senza fare aspettare troppo e troppo presto, poi, ha temuto di dover abbandonare tutto. Che fosse destino, incapacità di programmazione precauzionale, sfortuna o errori non lo sapremo mai: probabilmente tutto insieme. Di certo il cattolico Juan Martin, fatalista com’è, propenderà per la prima ipotesi ma se qualche errore l’ha compiuto in passato, lo ha pagato amaramente e lo ha capito, in seguito.
Il fatto è che poi, quando a un certo punto nessuno se l’aspettava più, ha vinto pure Cilic. Nella stagione più insolita, dopo la squalifica per doping per quella barretta in più acquistata in una farmacia dalla mamma, perché ha trovato le due settimane di grazia, perché così doveva andare: anche questo non sapremo mai. Ci ricordiamo le catenate da fondo campo e i servizi in faccia a Federer prima e Nishikori poi. Vabbè, un caso.
Neanche per sogno: perché ancora doveva arrivare la migliore stagione per Marin, questa stagione. La sesta posizione mondiale sta lì a confermarlo, la finale di Davis pure, il titolo a Cincinnati vinto su Murray anche. Certo, uno Slam è sempre uno Slam ma l’anno della continuità di gioco a livelli altissimi è senza dubbio questo. Eppure, anche in un anno del genere, ha perso due partite fondamentali che avrebbero potuto, in prospettiva, trasformare una stagione importante in una di gloria eterna.
Perse entrambe nello stesso modo: due set a zero di vantaggio, contro Federer a Wimbledon e contro del Potro, appunto, nel quarto match della finale di Coppa Davis a Zagabria, in casa.
E lì, su quel campo, quel giorno, ha riprodotto quello schema, quello che in psicologia grazie a Sir Bartlett chiameremmo “Guerra degli Spettri”, poco razionale ma così preciso nell’essere umano da rimanere attoniti. Si è preparato bene, sapeva benissimo cosa fare e lo ha fatto senza indugi: due set e mezzo perfetti, risposte incredibili, servizio efficace, rovesci tattici. Non c’era niente che non andava. Sì, c’era anche un avversario che poi, vistosi costretto in un angolo, ha reagito e lo ha sfidato. Ma è qui che parlano i caratteri tennistici dei due: essenzialmente front-runner nella vittoria.
E mentre subiva la reazione, il buon Marin ora maturo ha provato a resistere all’onda emotiva dentro di sé, buttandola fuori a forza, senza ingoiare niente, che non era certo il momento; è rimasto travolto da una volontà ed una fede nel farcela più grande della sua però, e non ha potuto farci nulla, come tredici o quattordici anni fa.
La gloria è andata a prendersela quell’altro, quello che da due anni ha fame di tornare e paura di non riuscire a farlo, ma che un anno fa già di questi tempi scriveva: “È quando mi dai per vinto e battuto che io tornerò a dimostrarti che non è vero”. Ha mantenuto la promessa, il vincitore, perché ci sono vinti che non accettano di esserlo e preparano la caccia andando oltre ogni cosa.
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