Dall’inviato a Melbourne, Luigi Ansaloni
MELBOURNE. Premessa: è solo una piccola considerazione dettata da molti fattori, ma tant’è…
Sono in tribuna stampa e mi accorgo che il 95% ha gli occhi a mandorla. Normale, gioca il più fiero degli alfieri tennisti dagli occhi a mandorla, Kei Nishikori, ed è quindi normali che siamo praticamente circondati. Idem nelle tribune. Gli australiani sembrano impegnati oggi a godersi il loro giorno, l’Australian Day numero 226 (quanto è giovane, questo paese…. ), tra unti barbecue e pic-nic in riva allo Yarra, un fiume che di secondo nome fa sporcizia (Ps: Jim Courier, ti stimo).
La lunatica (eufemismo) estate aussie di questi tempi gli ha persino regalato una giornata di sole: tanto è bastato per far scottare in 34 secondi circa il vostro cronista qui presente. Comunque.
Sono in tribuna stampa sulla Rod Laver Arena e mi accorgo che gli unici a mostrare un minimo di interesse per questa partita, che sarebbe pur sempre un quarto di finale di uno slam tra il numero sette e il numero UNO del mondo, sono proprio loro, quelli con gli occhi a mandorla. Spirito patriottico, certo, ci mancherebbe. Gli altri, uccisi dalla noia, dagli sbadigli. dalla monotonia. Uno svizzero davanti a me gioca a Ruzzle, un tedesco a lato a me manda messaggi al cellulare incomprensibili ad uno numero non salvato in rubrica, l’italiano accanto a me (non vi dirò il nome) cerca un ristorante per domani sera: c’è Raonic-Monfils, il “passo, grazie” è automatico. Vinto dall’ovvietà della partita (attenzione, non del risultato: della partita in sè), scendo in sala stampa. Stesso, identico spettacolo. Solo che qui le soluzioni per “distrarsi” sono ancora maggiore, e quindi il monitor che c’è sopra la testa e che trasmette la partita è contemplato solo in caso di troppo rumoroso “ohhhhhh” da parte del pubblico.
Rifletto: siamo qui la maggior parte dei giornalisti di tennis mondiali e ci stiamo ammazzando di noia, e a due passi c’è un quarto di finale di uno slam. Stesse scene il giorno prima, e il giorno prima ancora. “Ahhhh ci fossi io al posto tuo”, dice giustamente il lettore medio che il tennis lo vede spesso e volentieri solo in tv. Ma non c’è niente da fare: nonostante l’Australia, i tifosi e l’atmosfera, questo slam non riesce a prendere. E non è la prima volta ultimamente. Partite memorabili pochissime (per non dire nessuna), sempre le stesse facce (mese dopo mese cit.), i giovani che latitano manco fossero intrappolato della “lost generation” di “lost in weekend” di Cesare Cremonini (“E le domande se le fanno sono sempre in fila” potrebbe benissimo adattarsi agli australiani, a proposito)
. E non è un discorso di Djokovic, del tennis robot, dell’uniformità di superficie. C’è palesemente qualcosa che non va. E ce ne siamo accorti e ce ne stiamo accorgendo ancora di più, a poco a poco. Come dice la mia amica e collega Rossana Capobianco: “Profondo ma non vincente, profondo ma non vincente e l’altro sbaglia. Il 70 % delle volte. È cosí che è diventato un altro sport”. Che, evidentemente, non ci piace granchè.
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