TENNIS – Di Daniele Azzolini
In tempi di dolenti disillusioni per le sorti di Roma, fra scontrini nebulosi e grillini alle porte, è parso fuori luogo ai sempiterni benpensanti eleggere il precoce decadimento dello stadio Flaminio a tragica icona dello svacco capitale. Ma sbagliano, se posso permettermi. E nemmeno poco.
Sarà che vivo a un tiro, e ho visto quelle pareti squamarsi fino ad assumere l’aspetto odierno, di decrepite vestigia; sarà che ne ho scritto già nel maggio scorso, sulle pagine di Matchpoint Tennis Magazine, a conclusione degli Internazionali… Ma sono portato a pensare che intorno alla triste vicenda del Flaminio aleggino non meno di tre o quattro macabri spettri, generati dalla nostra incultura: la storica disattenzione per la cosa pubblica, l’incapacità manageriale di chi è chiamato a occuparsene (se non ci sono soldi, finisce anche la fantasia?), la scarsa considerazione per lo sport, utile ancora oggi come arma di distrazione di massa, secondo schemi collaudati da non meno di duemila e trecento anni. E ce ne sarebbero di cose da dire sulla grama attenzione che la politica rivolge allo sport, in un Paese che vive di calcio ma se ne guarda bene dal fare cenno ai vantaggi dell’educazione fisica in una qualsiasi campagna elettorale; che rilancia la scuola (evviva, in ogni caso) tralasciando la semplice riflessione che uno studente in buona salute fisica sarà più bravo, attento e volenteroso anche in matematica e in ogni altra materia. Un Paese che cerca disperatamente soldi, e dimentica come lo sport sia il volano del più grande risparmio si possa immaginare, quello sulla sanità pubblica.
Così, mi ha fatto piacere leggere ricordi, storie e invocazioni a salvare il salvabile, e rilanciare il rilanciabile, sulle pagine de Il Corriere dello Sport del direttore Alessandro Vocalelli, che di recente ha indetto una nuova, e forse ultimativa crociata per il Flaminio. Resta la domanda chiave, ancora da evadere: salvarlo sì, in ogni caso, ma per farci cosa?
In quell’articolo su Matchpoint posi il problema e tentai di dare una risposta. Inutile girarci intorno: essa viene dal tennis.
Si era al termine di un’edizione del torneo romano (l’ultima) di segno in parte contrario alle precedenti (non per i soldi, mi dicono, ma questa è solo una parte del problema), offuscata dal disinteresse mostrato da star come Serena Williams e Andy Murray, filate via alla chetichella a nemmeno metà torneo, e sempre alle prese con situazioni logistiche disagiate e tali da finire sottolineate in rosso in una lettera dell’associazione internazionale dei giornalisti del tennis all’Atp, cui hanno fatto seguito le scuse del presidente dell’organismo.
Ricapitolo in breve: per andare dal centro stampa simile a un refettorio alla sala conferenze i cronisti più anziani partono con venti minuti di anticipo, e lasciano il numero di cellulare pregando di venirli a cercare nel caso si perdano; nei bagni, dopo i primi due fortunati, si accede solo con la canoa; la vecchia palazzina che ospita i giornalisti, costruita con solidi criteri anni Trenta, offre un’insolita resistenza a tutto ciò che abbia un vago sentore di tecnologia: solo la corrente elettrica sembra transitare fra quelle mura, non il segnale internet e talvolta nemmeno quello televisivo.
Per non dire di come sono orientate le telecamere sui campi… Una sulla dorsale di Monte Mario, forse alla ricerca di camosci, un’altra fissa su Pietrangeli e la Pericoli, un’altra ancora sulla Sud dell’Olimpico, dalla quale però s’intravedono le mani del pubblico quando si sollevano festose e da esse si può intuire se un italiano abbia fatto il punto o meno.
A maggio, come oggi, il dibattito intorno al Foro tennistico verteva sui Giochi del 2024 (se riusciremo ad averli, ma speriamo di sì, malgrado la prospettiva di un sindaco pentastellato si ponga come ostacolo sia alla Roma olimpica, sia al nuovo stadio giallorosso, a stare a ciò che hanno sostenuto finora gli esponenti romani del Movimento), sulla necessità di un impianto più grande, magari dotato di parcheggi, e sul famoso tetto mobile del Centrale. Alle valutazioni di allora si è aggiunta, proprio in questi giorni, la minaccia federale di portare gli Internazionali a Milano. Decisione persino giusta, nei confronti degli appassionati milanesi che al torneo dettero i natali, ma che cozza (e che cozzo! signori miei…) con alcuni spigoli della logica. Su tutto, non si capisce come si possa passare in pochi mesi dall’affermazione che il torneo italiano sia l’unico e sacrosanto Quinto Slam, puntualmente reiterata a ogni vigilia dell’evento, manco fosse vera, all’annamosene via. E poi, come dimenticare che buona parte del popolo nordista del tennis, dal Piemonte alla Liguria, fino a Milano, abbia ormai eletto a Internazionali del Nord il torneo di Monte-Carlo? Tant’è… Le federazioni sono diventate enti che devono fare molte cose, soldi compresi, e non credo che alcuna di esse abbia nello statuto l’insegnamento di un’attività pedestre come la logica.
Ma forse, il vecchio, sgarrupato Flaminio, può venire in soccorso… Oddio, se proprio è necessario dare forma su due piedi a un sito olimpico che risolva il problema della settimana tennistica a cinque cerchi, e allontanare il tennis dallo stadio Olimpico (cerimonie di apertura e di chiusura, atletica leggera, finale torneo di calcio) e dall’impianto del nuoto, può bastare un grande circolo della Capitale, un Centrale con tribune in tubi innocenti, una bella “house” per i giocatori, e via… Nelle mie otto Olimpiadi da inviato ho visto di peggio (Atlanta, Stratton Mountain, trenta chilometri dalla città, con i bagni in plastica che si liquefacevano sotto il sole e obbligavano a posture disarticolate nel momento dei bisogni… Indimenticabile!). Ma se si vuole risolvere il problema una volta per tutte, e dare a Roma un nuovo impianto del tennis che sia “dentro” la città e non lontano mille miglia, credo sia opportuna almeno una valutazione storica. Questa: nella Capitale il tennis rinasce in due sedi, dopo il primo battesimo avvenuto al Tennis Roma fra teste coronate e rampolli con quattro quarti di nobiltà, una è quella del Foro Italico per volere di Mussolini, che all’inizio riteneva il gioco troppo anglosassone poi se ne appassionò; l’altra è quella del Tc Parioli, creata dalla ricca borghesia romana che si sentiva a disagio al Tennis Roma. E il primo Parioli, lo sapete, non stava nella sede attuale, di fianco al Monte Antenne (Mons Ante Amnes, cioè il colle davanti all’Aniene… Non c’entrano le antenne televisive, insomma), ma lì, in quel Viale Tiziano che scorre accanto al Flaminio, dove ancora esistono la vecchia sede e tre campi, sui quali lavora da maestro Tonino Zugarelli. In pratica, il Flaminio è costruito sui courts dell’antico Parioli.
Ora, nessuno potrebbe ritenere ingegneristicamente corretto “sollevare” lo stadio per riavere i vecchi campi. Si può fare di meglio. Tenersi il Flaminio (magari, ripulito, ristrutturato) e dividerlo in due. Diciamo tre quinti e due quinti… Da una parte ci sarebbe spazio per un magnifico Centrale. Accanto, per un imponente Grand Stand. Dentro, spazi a iosa per giocatori, stampa e organizzazione, addirittura una foresteria per i giovani chiamati a crescere da tennisti, e palestre per i ragazzi e le scuole del quartiere.
Se vi va, non è difficile immaginarlo. Può essere utile una foto dell’attuale Louis Armstrong con l’annesso Grand Stand a Flushing Meadows, o una, più antica, del Centre Court a Wimbledon quando il Numero Uno gli stava ancora di fianco. E l’opera può essere affrontata sia in termini spicci, mantenendo le attuali tribune (a parte quelle delle curve) di natura calcistica e inserendo un moderno separé fra le due zone, nello stile di quelli utilizzati a Flushing Meadows per agevolare il traffico fra
i campi laterali; sia con dovizia di mezzi, rendendo le tribune più perpendicolari e tennistiche e costruendone di nuove a separare i due campi. Ma sempre partendo dall’attuale struttura.
Il resto viene da sé… I campi intorno (lo spazio c’è), la vecchia House (può avere un’infinità di utilizzazioni e sarebbe un perfetto centro tivvù), e magari un ampio parcheggio sotterraneo, in una zona sufficientemente distante dal Tevere per non finire allagata a ogni acquazzone.
E dato che sono un tipo notoriamente spropositato, affiderei una ristrutturazione del genere a una firma importante, allo stesso Renzo Piano, così da uniformare il nuovo sito del tennis al vicino Auditorium. Dite, non sarebbe un incanto? Per una struttura del genere sarei anche pronto a concedere la stanza migliore del nuovo impianto al presidente del tennis… Ah ah ah, no, scherzavo!
E veniamo all’ultimo capitolo… Di soldini ne serviranno, ma gli effetti positivi di un piano del genere è facile intuirli…
1) Il rilancio di un impianto storico di Roma al momento devastato; 2) Nuove strutture utili anche al quartiere; 3) Il Foro Italico riconsegnato a Coni Servizi, con la possibilità di trasformare il Centrale in una struttura multi-sport, munita di tetto, che in chiave olimpica può funzionare come palazzetto per basket, pallavolo, sollevamento pesi o quant’altro; 4) Un grande impianto tennistico che potrebbe davvero aspirare (questo sì…) al ruolo di Quinto Slam, a patto di cambiare l’attuale calendario e ottenere i quindici giorni che oggi vantano Indian Wells e Miami lontano dal Roland Garros (in questa collocazione, che Roma possa avere un tabellone a 96+96 giocatori è pura fantascienza); 5) Una ulteriore possibilità offerta dal Centrale odierno del Foro, che anche nella nuova collocazione di impianto multi-sport potrebbe conservare le prerogative tennistiche e diventare una struttura utile per tornei invernali, o per eventi con minore presenza di pubblico, come la Davis e soprattutto la Fed Cup; 6) E in buona sostanza, la fine di un incubo, quello generato da un terribile errore di prospettiva sul quale cadono in molti per mancanza di conoscenze tennistiche: e cioè ritenere che sia possibile “trasportare” il torneo in zone più lontane dal centro, a Tor Vergata, a Fiumicino, addirittura ai Castelli. Il tennis, da quando è diventato sport di massa, si è avvicinato al centro delle città, non il contrario. È successo a Melbourne (dal Kooyong a Melbourne Park) e a New York (da Forest Hills a Flushing Meadows). Non a Wimbledon, ma il perché è facile da comprendere. Lontano da Roma, o in periferia, gli Internazionali perderebbero con ogni probabilità quegli spettatori, e sono la maggioranza, che vanno al tennis per fare una passeggiata sotto braccio alla fidanzata e vedere da vicino Federer e Sharapova (i quali, fra l’altro, nel 2024 saranno in ben altre faccende affaccendati).
Chiudo qui, per vostra fortuna. Spero che la proposta arrivi a Malagò, una fra le tante. Comprendo bene come il presidente del Coni sia impegnato su molti fronti, non ultimo quello della sua rielezione, minacciata oggi da una cordata (un’antica cordata) che già da un po’ si sta facendo sentire con i giornalisti, tempestandoli di telefonate. Ma il punto di partenza resta comunque centrale e urgente. Èd è lo stesso rilanciato da Il Corriere dello Sport. Il Flaminio va salvato!
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