TENNIS – DI FABRIZIO FIDECARO – Sono passati trent’anni da quando Boris Becker stupì il mondo del tennis conquistando il suo primo titolo a Wimbledon. Battendo in finale Kevin Curren, il tedesco divenne il più giovane vincitore nella storia dei Championships.
“Signore, dammi una prima, perché non so che cosa potrei combinare con la seconda”. Questi furono i pensieri di Boris Becker mentre si apprestava a giocare il matchpoint numero due nella finale di Wimbledon 1985 contro Kevin Curren. Il tedesco, avanti per 5-4 al quarto, aveva iniziato con un doppio fallo il game che l’avrebbe consacrato alla storia. Poi aveva ottenuto due punti con il servizio e un altro grazie a un passante di rovescio sbagliato dal rivale, ma, sulla prima chance per chiudere l’incontro, si era imballato commettendo un nuovo doppio errore.
Gli dei del tennis lo ascoltarono. Dalla sua racchetta uscì un’altra poderosa bordata, sulla quale Curren si protese invano all’estremo. Era finita. Il Centre Court esplose per tributare la giusta ovazione al nuovo campione, il più giovane di sempre con i suoi diciassette anni e sette mesi.
Da allora di primavere ne sono trascorse trenta esatte. Nel frattempo Becker ha vinto i Championships altre due volte (1986, 1989) e ha perso quattro finali (1988, 1990-91, 1995). Si è imposto in tre Slam sul duro e in altrettanti Masters, è stato – seppur brevemente – in vetta al ranking mondiale, divenendo una delle maggiori icone sportive del suo periodo. Terminata la carriera professionistica, ha faticato a trovare una propria dimensione, ma ora collabora con Novak Djokovic, e con lui al fianco il serbo ha trionfato dodici mesi or sono proprio in quello che Boris considerava il suo giardino.
Tutto, però, cominciò in quell’incredibile 1985, con il ragazzone di Leimen che colse un titolo insperato alla vigilia. La sua non fu certo una passeggiata. Al terzo turno Becker prevalse solo per 97 al quinto sullo svedese Joakim Nystrom, che servì inutilmente due volte per il match. Nel round successivo, sotto due set a uno con lo statunitense Tim Mayotte, si procurò una distorsione a una caviglia e, intenzionato a ritirarsi, accennò qualche passo verso rete per stringere la mano all’avversario. Il suo coaching team, formato da Ion Tiriac e Gunther Bosch, gli urlò spasmodicamente dagli spalti di non farlo e, anzi, di chiamare il medical timeout, che si rivelò provvidenziale per una nuova affermazione sulla lunga distanza. Boris superò nei quarti il francese Henri Leconte e, in una semi articolata su due giorni, un altro svedese, Anders Jarryd, cui recuperò uno svantaggio di un set e un break.
Tra lui e la clamorosa vittoria restava solo il sorprendente Kevin Curren. Originario di Durban, in Sud Africa, il 27enne Kevin aveva da poco acquisito la nazionalità a stelle e strisce. Era accreditato dell’ottava testa di serie e sull’erba si trovava assai bene: nel dicembre 1984 aveva raggiunto la finale agli Australian Open, dove si era imposto su Ivan Lendl prima di cedere a Mats Wilander, e a Church Road si era concesso il lusso di rifilare tre – brutali – set a zero sia a John McEnroe sia a Jimmy Connors. Insomma, non si trattava certo di un avversario comodo, ma, in fondo, nemmeno di un ostacolo insormontabile per il teenager reduce dal successo al Queen’s Club.
Becker partì come meglio non avrebbe potuto, strappando subito la battuta all’avversario e aggiudicandosi in scioltezza la frazione d’avvio. Curren pareggiò i conti nel tie-break del secondo, ma fu un nuovo “jeu decisif” nel terzo a far pendere la bilancia dalla parte del tedesco. Poi la conclusione al quarto, con thrilling finale, perché, nell’ultimo game, Boris avvertì in modo inequivocabile la tensione per il traguardo che si apprestava a tagliare.
Il matchpoint trasformato lo proiettò in un mondo irreale, fatto di membri della Royal Family che ti consegnano il trofeo, di celebrità che ti idolatrano, di presidenti della repubblica che vengono a felicitarsi negli spogliatoi. Dopo la gioia sfrenata, ecco la dolorosa scoperta della morte di nonno Franz, avvenuta due settimane prima. I familiari gliel’avevano tenuta nascosta, affinché non si distraesse e potesse giocarsi al meglio le sue carte a Wimbledon. Alla luce di quanto era accaduto, probabilmente avevano fatto bene.
Becker, però, ha spesso dichiarato con rammarico che quel successo arrivò troppo presto. «Da lì in poi, quando giocavo, tutto veniva paragonato a Wimbledon ‘85», ha spiegato. «Così non ho avuto tempo per sperimentare, per migliorare il rovescio, la mobilità. Forse, se non avessi vinto già allora, ora avrei qualche Slam in più in bacheca». Un’opinione che si può condividere o meno, ma ciò che è sicuro è che lo scalpore destato dalle sue imprese in quel torneo è rimasto indelebile nella memoria di ogni appassionato. Anche a distanza di trent’anni.
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