TENNIS – Di Daniele Azzolini
Decidete voi se esaltarvi oppure no, o magari assumere atteggiamenti fra il ponderoso e il disincantato. Io di regola procedo con cautela, almeno nel tennis, sport traditore se ve n’è uno. Chi aveva detto che il tennis l’ha inventato il diavolo? Ah, sì, sempre lui, Adriano… Guardo i fatti, piuttosto. E i fatti sono questi…
Il primo. Al grido “non si batte Seppi undici volte di seguito”, Andreas piega Roger Federer al terzo turno degli Australian Open. Coach Sartori poco dopo, è lì, di fianco all’ingresso della sala stampa, a dirci che Andreas sta finalmente giocando un altro tennis, più aggressivo, dunque più propositivo. «Fa cose che non faceva prima». Il passante con cui chiude l’incontro, costruito su un piegamento quasi innaturale del polso, è una di queste “cose”. Sfila sotto il naso di Federer e sembra destinato fuori, poi sterza, cambia direzione non si sa come, e si posa sulla riga. È davvero un colpo che non gli avevamo mai visto fare. E nemmeno Federer.
Il secondo. «Abbiamo vinto uno Slam, cazzo». Qui si passa dal mai visto al mai sentito. La premiazione di Fognini e Bolelli, sul centrale, nella sera tarda dell’ultimo sabato degli Australian Open è speciale come il torneo di doppio che i due hanno condotto in porto. Fognini esonda, ma va bene così. Anzi, la faccio mia, quella frase dettata al microfono della festicciola finale sulla Rod Laver Arena. «Cazzo, Fabio, stavolta mi avete emozionato». Potete capirmi. Ho cominciato a seguire il tennis dal 1976 ed erano 39 anni che aspettavo un italiano che sollevasse una Coppa del Grand Slam maschile. E qui ce ne sono due… Cazzo!
Il terzo. Di passaggio a Zagabria, Seppi fatica un po’ a rimettersi in marcia, sul cemento indoor del palazzetto, poi raggiunge la finale. Il conto, finora, riporta una semi a Doha, un ottavo a Melbourne e una finale a Zagabria. Non male.
Il quarto. Tutto in una settimana: il primo match vinto in un torneo del circuito maggiore (pure il secondo e il terzo, se è per questo), e poi su su fino alla finale. Luca Vanni cala mazzate di servizio a 209 orari come se niente fosse. Ha ventinove anni, tanto tennis nei Future e nei Challenger. Dire che se la merita, questa promozione sul campo, è quasi un eufemismo. Tanto più che tutto quello che ottiene sul campo di Sao Paulo, Luca se lo costruisce con le sue mani. Dalle qualificazioni superate, al numero 108 del ranking al quale approda a fine torneo. In finale costringe Cuevas, ben più navigato di lui, al tie break del terzo. Vale una convocazione in Davis, spero davvero che gliela diano, e dopo, magari, gli evitino le pre-qualifiche al Foro Italico. Chissà perché penso a Bolelli, che un anno fa venne omaggiato di questa evitabilissima umiliazione…
Il quinto. Già, chissà perché… Forse perché i passi avanti di Simone erano evidenti già dall’anno scorso, dopo essere precipitato al numero 360 del mondo per via dell’ennesimo infortunio (al polso, ricordate?). Ora è fra i primi cinquanta e a Marsiglia inchioda la testa di serie numero uno, Milos Raonic, nel tie break del terzo set. Match memorabile, giocato colpo su colpo, come Bolelli sa fare. Ci aveva perso la settimana prima, e ha ragionato sugli errori commessi.
Il sesto. Fognini batte Nadal ed è in finale a Rio, terza finale italiana in due mesi scarsi di tornei. Inutile dire che Nadal non è ancora Nadal, piuttosto c’è da chiedersi quando tornerà a esserlo. Passi avanti da Melbourne, sinceramente, non ne ho visti. Anzi, ho visto Fognini a muso duro condurre lo spagnolo, a partire dal secondo set, quasi alle porte della disperazione. Ho visto Nadal attaccare sugli ultimi colpi, evidentemente convinto che negli schemi da fondo Fabio fosse, in quel momento, superiore. L’ho visto imprecare e scuotere la testa sempre più pelata. Quello che non ho visto, invece, è un qualche cedimento di Fognini, nemmeno quando le decisioni arbitrali (sacrosante, in quel caso) gli si sono messe di traverso. Lucido, addirittura spietato. Un match molto ben condotto, costruito sulla risposta lunga, tranquilla e poi sull’improvviso affondo, operato sia con il dritto sia con il rovescio. Davvero un buonissimo match. Di quelli che potrebbero infondergli le convinzioni utili a un bel proseguo di stagione.
Ora, la domanda (l’ultima, tranquilli) è questa: sei fatti fanno una prova, nel tennis? Io credo di sì… I ragazzi un po’ invecchiati del tennis italiano sono partiti con il piede giusto. Sentono urgente la voglia di legare i loro nomi a qualche bella impresa. Forse, a molte belle imprese. Hanno l’aria (tutti) di chi si sta giocando un pezzettino di Storia, personale e italiana. Mi limito a questo, per il momento. L’ho detto, non mi esalto facilmente. Ma i “buoni fatti” mi fanno star bene. Molto bene.
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