TENNIS – Di Gianluca Atlante
Ricordi di un Mondiale umido “stelle e strisce”, anno 1994, e di un megafono che, nella quiete della Pingry School, non smetteva mai di osannare la “cultura del lavoro”. Erano i tempi in cui Arrigo Sacchi, cittì azzurro, non andava ancora a braccetto con il suo stress preferendogli, di fatto, il martellamento continuo ai suoi discepoli.
Oggi, su ogni campo, sono in molti a riempirsi la bocca di questo “motto sacchiano”, ma in pochi a metterlo in pratica.
La seconda domenica di settembre, che di fatto archivia la semifinale di Davis con la Svizzera, ci ha offerto, a mo’ di assist più che pregevole l’opportunità di tornare indietro con gli anni e di far leva su quanto detto, pronto a fare il giro del mondo ma che, mai come in questo week-end, ha trovato terreno fertile nelle nostre racchette. In quelle di Simone Bolelli e Karin Knapp. Entrambi accomunati da un destino un tantino crudele. Fatto di sofferenze e, non semplici, ritorni di fiamma. Simone e Karin, in effetti, di cose ne avrebbero tante da raccontare, ma hanno preferito far parlare la loro racchetta e quella voglia innata di urlare al mondo intero, che loro ci sono, eccome se ci sono.
Da Ginevra a Taskhent. Dalla Davis, ad un Wta da 250mila dollari. Dal creare problemi al grande Federer, al vincere un torneo, il primo della carriera, cinque anni dopo la finale persa, il 17 febbraio del 2008, contro Justin Henin ad Anversa. Momenti che, altro non sono, che figli di un comun denominatore chiamato lavoro. Con il polso che fa male, la racchetta che non sta in mano, come nel caso del “Bole” o le ginocchia che non vanno giù e che non ne vogliono sapere di darti una mano nel provare a gettare oltre la rete, oltre al cuore, anche la “gialla” di turno, come nel caso della Knapp.
Simone e Karin, due belle storie italiane. Figlie di quella cultura del lavoro che, però, non può assolutamente prescindere da Umberto Rianna e dai fratelli Piccari. Uomini di cultura tennistica assai rara, almeno dalle nostre parti, prima che coach al fianco dei loro assistiti. Capaci di assumersi le responsabilità di una patata sin troppo bollente, ma di riuscirla a “pelarla” come soltanto le massaie di un tempo sapevano fare. Capaci di credere, prima di ogni cosa, nel recupero totale dei loro atleti, attraverso quel lavoro certosino, fatto giorno dopo giorno, utile a intravedere la luce del tunnel. E questa luce, nel week-end che stiamo per metterci alle spalle, è tornata a risplendere. Come quel sole che, una volta fattosi largo tra le nubi, non conosce più avversari nel riscaldare le proprie emozioni e quelle degli altri.
Simone e Karin, protagonisti di un week-end tennistico, se non altro, da raccontare. Ricordando, a chi non ha memoria, che dalle ceneri si può risorgere, a patto che lo si voglia veramente. Perchè se è vero che il talento non è allenabile, è altrettanto vero che la cultura del lavoro può, comunque, portarti lontano e il duo Bolelli-Knapp è indirizzato, nonostante tutto, su una corsia preferenziale.
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