TENNIS DAVIS CUP – La Davis è una costruzione virtuosa, dice Tonino Zugarelli, che nel 1976 fece da fondamenta (una delle quattro) a Casa Italia, il miglior edificio sin qui innalzato. La virtù viene dalla giusta collocazione degli animi a bordo, e dalla completa adesione di questi ai compiti affidati. In spiccioli, occorre un numero uno che sia tale, e possa permettersi di battagliare con gli altrui capisquadra. Un numero due di buona lega, superiore alla maggior parte dei numero due in campo e in cuor suo convinto di non essere così lontano dal primo della classe. Un doppista abbastanza eclettico da poter supportare almeno due dei compagni di squadra, prendendoli per mano nell’esplorazione dei misteriosi percorsi del gioco di coppia. Infine un ulteriore componente il settore dei singolaristi che non sia semplicemente “il quarto”, ma abbia specifiche tecniche particolari, utili a disinnescare certi tipi di giocatori, o ad affrontare meglio di altri le costrizioni delle superfici meno frequentate. Tonino giocò e vinse i due confronti del Settantasei a Wimbledon (con Roger Taylor e John Lloyd), portando punti che si tradussero nella conquista della Coppa in Cile. Non era il quarto. Era un titolare aggiunto.
Quanto di virtuoso vi sia in questo team che ci riporta dopo sedici anni ai fasti di una semifinale è discussione di queste ore, ma è evidente che la squadra sta assumendo una sua forma precisa, e con un po’ di immaginazione (qui e là operando i doverosi distinguo) si può persino tentare un qualche paragone con quella che nel 1976 vinse la Davis, e forse anche con la formazione che raggiunse la finale nel 1998, cui mise mano Panatta e che Bertolucci rifinì e guidò fino al 2000.
L’evento che ha dato una dimensione diversa alla squadra italiana è stato (inutile girarci intorno, lo sappiamo tutti) la crescita di Fognini, che ha preso le mosse dieci mesi fa con i tornei sul rosso successivi a Wimbledon, e sta proseguendo oggi. Nell’aprile scorso il numero uno era Seppi, e Fabio era il suo secondo, oggi le posizioni si sono invertite e la squadra corrisponde maggiormente al valore tennistico dei suoi componenti. Fognini, nei risultati, nell’animo, è il numero uno. Come lo fu Panatta. Come lo è stato Gaudenzi. Mentre Seppi è un numero due, per capacità tecniche, per qualità tennistiche e per l’immagine che offre di sé (temo lo sia anche nell’animo…). Come lo fu a suo tempo Barazzutti, considerato il numero due anche quando la sua classifica lo poneva ben più in alto di Panatta. Diversamente, la formazione che raggiunse la semifinale nel 1996-1997 e la finale nel 1998 ebbe più numeri due, e nel ruolo a turno operarono Camporese (irresistibile sulla superficie indoor nel 1997, contro la Spagna di Moya e Albert Costa), Sanguinetti (battendo Martin firmò il successo di Milwaukee, contro gli Stati Uniti, nel 1998) e Furlan. Un’anomalia, se vi va di considerarla tale, con il pregio però di garantire un giocatore utile su ogni tipo di superficie (Camporese e Sanguinetti erano da cemento, anche indoor, sempre Sanguinetti vantava un buon passato da erbivoro, Furlan era un ottimo interprete della terra rossa).
Potrei proseguire in questa analisi comparata delle tre formazioni migliori della nostra recente storia coppistica, accostando i doppisti (l’altro ieri Bertolucci, ieri Nargiso, oggi Bolelli) e le figure dei “terzi” singolaristi (Zugarelli appunto, quindi Pozzi, ora Lorenzi), magari per sottolineare che per puntare davvero in alto servirà non solo l’ulteriore crescita di Fognini e Seppi, ma anche quella di Bolelli in doppio (a Napoli il migliore, ma sempre in lotta con la sua intermittente personalità) e di un quarto componente di qualità, ma è un fatto che l’approdo di Fabio nel tennis che conta (il numero 13 in classifica, i tre tornei vinti da un anno a questa parte, la pulitissima vittoria su Murray in Coppa) abbia trascinato l’intera squadra in una dimensione di maggiore solidità, che ci permette di cogliere quelle vittorie che il pronostico ci assegna (e con la Gran Bretagna i favoriti eravamo noi, non facciamo finta di dimenticarlo), anche quando non tutto si dispone per il verso giusto.
Una crescita, quella di Fognini, che ha un referente preciso. Il nome, Josè, il cognome, Perlas… Fu nel novembre 2011, il 10, che Fognini decise di affidarsi al tecnico spagnolo di più larghe vedute. L’incontro non fu per nulla casuale, ma frutto di un lungo appostamento. Nell’ambiente girano due voci su Perlas. La prima è che sceglie di allenare solo i tennisti che lo emozionano. La seconda, che quei tennisti devono essere molto forti… «Anche se non lo sanno». Fabio non è certo il tipo che fa il timido se c’è da emozionare qualcuno a colpi di racchetta, piuttosto c’era da meglio comprendere la reale portata di quella seconda clausola. Forti, sì, ma quanto? Come quelli che Perlas aveva già guidato? Nella sua carriera Josè ha tirato su tre vincitori e un finalista del Roland Garros, oltre a due numeri uno. Da Juan Carlos Ferrero a Guillermo Coria, da Albert Costa a Carlos Moya, che addirittura ha cresciuto. Poi Janko Tipsarevic e Nicolas Almagro. In quel 10 novembre 2011, giorno del comunicato ufficiale che metteva nelle mani del coach spagnolo le sorti del tennista italiano di maggior talento (anch’egli spagnolo già da qualche anno se non altro per scelta di metodo tennistico), Fognini era costretto a fare i conti con una classifica di seconda fascia, numero 42. «Era una sfida per entrambi», dice oggi Perlas, «una bella sfida. Ma sapevo di poter contare sul buon tennis di Fabio, un tennis che sgorga per vie naturali». Un tennis che lo emozionava. L’antidoto alla noia del troppo batti e ribatti.
Con Perlas, Fabio ha trovato la fiducia che mancava, la continuità che non era mai stata la sua migliore qualità, e ha carburato il fisico dando forma compiuta alle sue qualità migliori, che sono quelle della corsa. La velocità e l’armonia negli spostamenti. Una scelta che lo ha corredato di tutto punto per poter esprimere il suo tennis e i suoi talenti. E poter considerare definitivamente vinta la sfida.
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