Di Diego Barbiani
Quando attorno alle 10 di ieri sera a Melbourne Stanislas Wawrinka metteva a segno l’ultimo dritto vincente che sanciva l’incredibile trionfo per lo svizzero ai danni di Rafael Nadal nell’Australian Open, si era chiuso un percorso.
Nel 2003 si era fatto conoscere al mondo nel torneo junior del Roland Garros, quando ha ottenuto la sua prima affermazione in un torneo dello Slam. Tutti furono ammaliati da questo ragazzotto che portava un rovescio con una naturalezza incredibile. Non fosse stato per il carattere un po’ scorbutico ed un fisico forse un po’ troppo robusto si sarebbe parlato di lui come un possibile campione a tutto tondo.
Il problema principale, però, giunse nel giro di pochi mesi: l’attenzione degli svizzeri e del mondo intero si è riversata sul ben più importante Roger Federer. Quest ultimo, a Febbraio del 2004 otteneva per la prima volta il n.1 del mondo (e non l’avrebbe lasciato fino ad Agosto di quattro anni dopo) ed ogni cosa che faceva veniva lodata in maniera quasi spasmodica e patologica da ogni lato del globo. E poi c’era lui. Svizzero sì, ma con molto meno appeal.
Wawrinka è cresciuto tennisticamente così, nella difficoltà ad imporsi al grande pubblico. Il suo rovescio era il vero marchio di fabbrica, ma anche quello del suo connazionale era ad una mano e nonostante quello di Federer si sia dovuto “migliorare” nel corso degli anni, neppure lì riusciva ad avere la meglio. A Roger la gloria, le luci, i contratti milionari, una fama che non trovava confini, cementificata nei secoli a venire da tutti i record che gli vengono accostati e dai plurimi successi in ambito sportivo ed umanitario. A Stanislas… beh, a lui quello che rimaneva. Le briciole, gli scarti. Così mentre il primo faceva incetta di trofei e riconoscimenti, formava una famiglia ed aveva l’onore di insidiare Nelson Mandela come personaggio più influente al mondo secondo la classifica stilata da Forbes, quest ultimo lottava ad ogni turno per uno squarcio di visibilità. Sperduto in uno dei campi secondari ad arrabbiarsi perché nonostante quel rovescio da “mille ed una notte” era costretto ad una nuova battaglia di cinque set contro uno dei tanti peones di turno. Poi c’erano le sfide contro il celebre connazionale, ed anche lì era una sfida impari. L’unica volta in cui è riuscito a superarlo fu nel torneo di Montecarlo a cui Federer prese parte appena dopo aver sposato Mirka, qualche mese prima di mettere alla luce le prime figlie (il terzo arriverà a breve).
Anche lui, inoltre, ha una famiglia. Ma nel perfetto stile confusionario che ha caratterizzato la prima parte di carriera, in una giornata di Settembre di ritorno dalla trasferta di Coppa Davis in Kazakhstan ha dichiarato alla moglie ed alla figlia appena nata di volersi separare per evitare distrazioni nei pochi anni di carriera che gli rimanevano (ad alti livelli). La follia comunque si è ricomposta e, qualche mese dopo, la piccola Alexia Wawrinka viene avvistata tra le primissime file dello stadio dove si sta svolgendo la sfida di Coppa Davis tra Svizzera e Portogallo, segno di una nuova riappacificazione della famiglia.
Il neo che ha caratterizzato il suo primo decennio da professionista è stato la testa, l’insoddisfazione di dover sempre dimostrare a tutti che anche lui c’era, anche lui sapeva giocare bene e qualche volta riusciva anche ad ottenere qualche risultato di rilievo. Come a Roma, nel 2008, quando giunse ad una sorprendente finale persa in tre set da Novak Djokovic. Si caricava di pressioni eccessive, come quando con la nazionale lui era solo contro tutti. Spesso Federer ha dichiarato forfait, soprattutto da quando ha iniziato a dominare la scena internazionale. Allora toccava all’irrequieto Wawrinka sorreggere il peso di una nazione, e quando non andava era il primo ad essere criticato.
Anche a causa di questo, in campo aveva atteggiamenti che lo facevano risultare antipatico, come l’urlare a pieni polmoni un «Allez!» quando era l’avversario a sbagliare. Inoltre una faccia butterata ed un’espressione sempre molto imbronciata non aiutavano a farlo apparire migliore. In Italia per anni gli appassionati vedevano in lui il sosia perfetto dell’ex arbitro Roberto Rosetti. Lui intanto si faceva tatuare sul braccio sinistro una citazione di Samuel Beckett, resa ormai celebre dal suo trionfo in terra australe: “Ever tried. Even failed. No matter. Try again, fail again, fail better” (Ho provato. Ho fallito. Non importa. Proverò ancora, fallirò ancora, fallirò meglio). «E’ la mia visione della vita e del tennis – ha dichiarato lo stesso svizzero – se non sei Roger o Rafa o Andy o Nole non vinci tanti tornei, perdi sempre. Ma hai bisogno di prendere gli aspetti positivi delle sconfitte, e tornare al lavoro e continuare a giocare». E questo forse spiega meglio di chiunque altro dettaglio il carattere scontroso e questa nomea di antipatico che si stava trascinando torneo dopo torneo, sempre costretto a combattere contro la morsa silenziosa di paure e fantasmi che creava dentro di sé e da cui non riusciva a liberarsene. Per quanto di buono facesse, per gli altri lui era sempre quello che arrivava dopo, un giocatore bravo, che ogni tanto sapeva mostrare un buon tennis, ma che crollava con regolarità ad un passo dalla grande impresa a causa di un nastro, di un’indecisione, di una sua debolezza.
Poi però qualcosa è scoccato, ed in una calda serata australiana l’opinione generale su di lui è iniziata a mutare. Tutti hanno ammirato la bontà del suo tennis e la strenua resistenza a quello che era parso come un traguardo inesorabile: una sconfitta, seppur onorevole, contro Djokovic (ancora lui) dopo la solita grande occasione mancata. Avanti 6-1 5-2 stava per cedere in quattro set quando un primo moto di ribellione lo ha spinto a vincere il tie-break e ad infuocare il pubblico della Rod Laver Arena. In quel momento è scoccata una scintilla, che ha posto in empatia Wawrinka “l’antipatico” con il mondo intero. Un raggio di bontà era uscito dal suo corpo ed aveva fatto breccia nel cuore di chi, da neutrale, seguiva l’incontro e sperava nella favola con il lieto fine. Lottando con tutte le proprie forze contro la sorte e cedendo 12-10 dopo cinque ore paradossalmente lo ha rivelato al mondo. Tener testa per oltre cinque ore a Novak Djokovic, per di più in Australia. Fino ad allora c’era riuscito solo Rafael Nadal, a risaltare maggiormente la prestazione dell’elvetico. Una settimana dopo ed era punto e a capo: assieme a Marco Chiudinelli ha giocato e perso il doppio più lungo della storia, annullando dodici match point prima di soccombere 24-22 al quinto set nella sfida di Davis contro la Repubblica Ceca. Ed ancora, il giorno dopo, quando sotto due set a zero ha sfiorato un nuovo quinto set contro Berdych perdendo la sfida decisiva. Piano piano tutti hanno capito: quello che si celava dietro le urla antisportive non era altro che un ragazzo soffocato dal terrore di non farcela, dalla pressione che da solo si metteva e lo autodistruggeva.
L’arrivo di Magnus Norman è stato il definitivo salto di qualità. Lo svedese, ex n.2 del mondo e già bravissimo allenatore di Robin Soderling, ha contribuito nel rendere Wawrinka un bellissimo cigno, costruendo una maturità mentale che lo ha portato per la prima volta in una semifinale Slam (US Open), per la prima volta in un Master di fine anno, per la prima volta a vincere uno Slam (Australian Open) e per la prima volta sul podio della classifica Atp.
Oggi Wawrinka è maturato molto, anche a livello d’immagine. Al master di Londra, ad esempio, dopo aver perso contro Nadal una partita sfortunata, in sala stampa è giunto con l’espressione di chi aveva pianto fino a cinque minuti prima, ma è stato tutto il tempo lucido ad analizzare cosa ancora una volta lo avesse bloccato.
Grazie al suo tennis ed al suo continuo progredire in classifica è riuscito poi nel passo più complicato: attirare le simpatie del pubb
lico e dei suoi colleghi. Già con i soprannomi aveva saputo modellare la sua immagine, tra i simpatici Stan the Man o (nella versione 2.0) Stan the IronMan fino all’ultimo, lanciato da Federer su Twitter ad inizio torneo: Stanimal.
La vittoria di ieri ha fatto esultare tantissime persone, in primis lo stesso Roger, per cui Wawrinka spende sempre parole di grande affetto. «Roger è speciale, gli devo molto. Parliamo spesso dei nostri match, ha sempre il consiglio giusto da darmi. Mi cerca sempre alla fine delle mie partite, vuole il meglio per me» e ieri ha aggiunto che tra la fine del match ed il momento in cui ha ripreso in mano il cellulare c’erano già tre chiamate perse del suo connazionale. Fino a queste due settimane incredibili, il suo ricordo più bello probabilmente era l’oro olimpico vinto a Pechino proprio al fianco di Federer. Ora, c’è da giurarci, sarà in ottima compagnia.
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