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Challenge Round. Sampras-Agassi e Djokovic-Nadal: paradossi del ranking

Lunedì Rafael Nadal è tornato in vetta al ranking mondiale a distanza di oltre due anni dall’ultima volta. Lo ha fatto in modo piuttosto curioso, ossia subito dopo aver perso con il da lui poi detronizzato Novak Djokovic nella finale del torneo ATP 500 di Tokyo. Uno dei classici paradossi della classifica computerizzata, che si fonda sui risultati delle ultime cinquantadue settimane: il serbo si era già imposto nell’evento giapponese dodici mesi fa e quindi non ha guadagnato nulla, mentre lo spagnolo ha aggiunto i punti della finale, rivelatisi sufficienti per il sorpasso.

In campo maschile era accaduto un fatto analogo in un paio di occasioni: la prima, nell’estate 1985, con l’avvicendamento al primo posto tra John McEnroe e Ivan Lendl (Mac batté Ivan a Montreal, ma gli cedette il primato); la seconda, più recente, a Wimbledon 1999, con protagonisti Pete Sampras e Andre Agassi.

Nell’ultima edizione del Novecento Pistol Pete si affacciò a Church Road nelle vesti di campione uscente, avendo trionfato l’anno precedente al termine di una combattuta finale con Goran Ivanisevic (conclusa 62 al quinto, con il croato distrutto durante la premiazione – ma il suo momento, in maniera imprevedibile, sarebbe arrivato in seguito…). Il Kid di Las Vegas, invece, aveva ben poco da difendere, visto che nel 1998 era stato eliminato già al secondo turno dall’emergente tedesco Tommy Haas. Così, già al termine della semifinale vinta in quattro set contro Patrick Rafter, Andre poté festeggiare la matematica certezza del primato, che giungeva due anni dopo il suo periodo più critico, nel quale, tra vizi e stravizi, poi raccontati nella sua autobiografia, era precipitato fino al 141esimo posto del ranking.

A Sampras poco importò. Ciò che contava per lui era restare sull’amato trono dei Championships e ottenere il sigillo londinese numero sei, il che avrebbe voluto dire anche eguagliare il record di titoli Slam detenuto dall’australiano Roy Emerson con dodici. Nel match clou, di fronte al suo storico rivale, Pete fu superlativo, disputando uno dei migliori incontri della sua carriera. Agassi era in gran forma, veniva dal successo ottenuto al Roland Garros che gli aveva regalato il prestigioso Career Slam e a fine estate si sarebbe ripetuto agli US Open, ma in quell’occasione non poté nulla. Giocò bene, cercò di limitare i danni al massimo e in parte vi riuscì, ma dovette incassare comunque una sconfitta per tre set a zero: 63 64 75.

L’unico momento di incertezza lo si ebbe sul 3 pari della prima frazione, quando Pete si ritrovò 0-40, ma la maniera in cui annullò lo svantaggio – un ace e tre servizi vincenti, uno di seguito all’altro – lasciò intendere a tutti che quel giorno per Andre sarebbe stato impossibile prevalere. Così il talento cristallino di Sampras, la sua maggior attitudine ai prati, al gioco di volo, all’avanzamento verso rete, ebbero la meglio. Pete giocò in maniera strepitosa, senza evidenziare talloni d’Achille, nemmeno nei colpi tradizionalmente meno solidi come la risposta di rovescio, con la quale, invece, ottenne non pochi punti.

«Ha camminato sull’acqua oggi», sintetizzò al termine Agassi. «Lui è in grado di giocare così, e quando ci riesce è come trovarsi nel mezzo di una tempesta». «Andre tira fuori il meglio di me», replicò Pete, concedendo al rivale l’onore delle armi. «Per batterlo devo sempre esprimere il mio tennis migliore. È stato fantastico riuscirci oggi, a Wimbledon, e nel giorno dell’Indipendenza americana».

Il giorno dopo, però, il ranking ATP sancì il sorpasso. Agassi primo a quota 3684 punti, Sampras addirittura solo terzo con 3594, scavalcato anche da Rafter, secondo a 3673. In effetti anche Pat il Bello era stato in corsa per la leadership, visto che l’anno prima aveva perso già negli ottavi con Tim Henman: la sconfitta con Agassi in semi gli aveva negato questa soddisfazione, che si sarebbe comunque tolto poco più di un mese più tardi, peraltro restando in cima per una sola settimana. Quel lunedì mattina di quattordici anni fa, però, al di là di tutto e nonostante i complessi e talvolta perversi calcoli dei macchinari, il più felice di tutti era senza dubbio Pistol Pete…

 

Fabrizio Fidecaro

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