Dal nostro inviato a New York
Gianluca Atlante
New York – “Oggi mi dico: ‘sei stato un pazzo’. Poi, ci rifletto, e mi arrendo all’evidenza, ma lavorare con un giocatore mi manca, eccome se mi manca. E Federer, era il massimo. Nel 2008, proprio qui all’Open degli Stati Uniti, al termine della quinta finale contro Andy Murray, gli annunciai il mio desiderio di accettare la proposta della Usta (United State Tennis Association): chissà, magari ero ubriaco (e giù un sorriso…). In effetti, oggi forse sono un tantino pentito di quella scelta”.
Il venerdì della prima settimana a Flushing Meadows, a ridosso della sala stampa, nel piccolo giardino che ne delimita l’ingresso. Tira un venticello gradevole, quasi ad avvolgere il Queen’s e a renderlo meno umido di quello che è. L’appuntamento è per le ore 13 locali, le 19 da noi in Italia. Josè Higueras è puntuale. Felice di parlare nuovamente un po’ di italiano con qualcuno. Sembrerà strano, ma è così. “L’Italia è un Paese meraviglioso, ho dei ricordi molto belli”. Ecco, appunto. Ma il comun denominatore del dialogo che stiamo per intraprendere è un altro. E’ il tennis “stelle e strisce”, in crisi di identità.
Jose Higueras, lei che quotidianamente tocca con mano questa situazione, ci spiega cosa sta accadendo.
“Gli Stati Uniti vivono, da questo punto di vista, un momento molto difficile e questo, come dite voi, è sotto gli occhi di tutti. Manca la cultura del lavoro, manca la voglia di lavorare un certo modo, c’è troppa fretta di arrivare, si vuole tutto e subito e questo è un male per il movimento”.
A quanto pare, però, soltanto a livello maschile.
“Esatto, ma i fattori che si sommano, in questo caso, sono diversi. Baseball, football e basket, portano via tanti atleti. Giovani predisposti per lo sport, che preferiscono queste discipline, dove è più semplice arrivare e guadagnare subito dei soldi. In campo femminile la situazione, e mi ricollego a quanto detto prima, è diversa. Le donne giocano a golf e tennis, sport che permette loro di arrivare alla gloria e, soprattutto, ai guadagni”.
E quindi?
“In campo femminile, gli Stati Uniti non stanno messi male. Al di là di Serena Williams, c’è qualcosa che si muove, abbiamo un movimento che permette ai tecnici di avere molto più materiale di qualità sul quale lavorare. Giovani di sicuro affidamento che hanno voglia di arrivare, che hanno fame di successo, che sono pronte a soffrire sul campo e fuori, per arrivare a centrare determinati risultati”.
L’intervista completa la leggerete sul prossimo numero di MatchPoint.
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