Premio “Rosicone d’oro per l’anno 2023”. Candidati Daniil Medvedev per le boccacce in cui si produce ogni qualvolta va sotto nel punteggio; Novak Djokovic per la mirifica interpretazione di un uomo in lotta con tutti pur essendo solo al comando; Nicola Pietrangeli per gli struggenti monologhi nei quali non si capisce se ce l’abbia con qualcuno o solo con l’età; Andrey Rublev per il senso artistico delle sue produzioni cariche di autoironia, nei panni di un tennista che rosica contro se stesso; e Cameron Norrie, per la pallata sotto forma di smash spedita a Djokovic negli ottavi di Roma.
Premio assegnato all’unanimità a… Novak Djokovic!
Leggiamo insieme le motivazioni della giuria internazionale: “Per non aver evitato, ancora una volta, di sbarellare all’annuncio di una designazione da lui non condivisa, quella che ha destinato il premio Coach of the Year a Simone Vagnozzi e Darren Cahill e non al proprio coach Goran Ivanisevic. Recidivo, non utilizza metafore, risultando oltre modo sintetico e incisivo nel rendere al meglio l’idea degli spazi ristretti nei quali l’anima sua stenta a respirare”.
Campioni e Rosiconi. Ma si può? Eccome! Il tennis ne ha prodotti a bizzeffe, sin dai tempi antichi, quando il nostro barone de Morpurgo preferì schiaffeggiare De’ Stefani – colpevole di averlo finalmente battuto – anziché stringergli la mano. «E non si permetta più di battermi», lo ammonì con un’occhiata di commiato foderata di tutto il vecchio classismo di una volta… Chissà se uno come Djokovic abbia mai aspirato a identiche follie, magari quando un Medvedev lo superò nella finale degli US Open che valeva il Grand Slam (era il 2021), o quando in formazione congiunta prima Zverev lo spinse via dall’oro olimpico di Tokyo, poi Carreno Busta gli fece sparire da sotto il naso pure il bronzo (ed era ancora il 2021). Per non dire di Sinner, che ha imparato a batterlo, e l’ha fatto proprio in Davis, rimontando tre match point e rivoltandogli contro uno dei suoi sacri teoremi, quello secondo cui per vincere basta giocare nel momento giusto, nel modo giusto, i punti che servono. E pensare che lui, il Djoker, quella Coppa l’aveva già promessa alla Serbia…
No, non ce lo vedo Nole che fa parlare le mani. Non è tipo, e nel caso lo sia stato, ha imparato a trattenersi. Lo fa meno con le storie, come chiamano su Instagram quelle che un tempo avrei definito didascalie. È lì che il numero uno, sotto una foto di Goran Ivanisevic, ha fatto sapere che cosa pensa del premio a Vagnozzi e Cahill. “Goran, mi sa che bisogna vincere quattro Slam su quattro per essere considerato, forse, coach dell’anno…. Finire l’anno con il primo posto, tre Slam e fare la storia di questo sport non è abbastanza”.
Niente di che, si sopravvive lo stesso, anche se Djokovic considera Ivanisevic più premiabile di Vagnozzi e Cahill. Il rispetto non manca. Lo stesso Nole porge ai due tecnici di Sinner i dovuti applausi per la bella stagione di cui sono stati protagonisti. Ma ci sono i numeri e le vittorie, che da sempre fanno da stella cometa al serbo. E non riesce a capire, o non gli va di farlo, che può esserci qualcosa che va oltre quei numeri e quelle vittorie.
Fisici complessi, attrezzati per lo sport come una Formula Uno per superare i trecento orari, sono spesso abitati da una percezione della vita alquanto semplificata, per non dire semplicistica. Djokovic è così. Non riesce a cogliere come la maggioranza dei votanti possa aver espresso un parere contrario al suo, che si fonda appunto su numeri e vittorie. Accade lo stesso con la pretesa di essere la Grande Capra del nostro sport, il GOAT (Greatest of all time) che fa da acronimo al “Più Grande di tutti i tempi”. Possibile che qualcuno punti ancora su Federer? si è chiesto più volte, allibito.
Per essere uno che raramente è d’accordo con l’Atp, trovo invece giusta e meditata la scelta di Vagnozzi e Cahill. Hanno preso Sinner poco meno di due anni fa, quando il nostro Semola, ventenne, mostrava di avere due colpi da campione con poco tennis intorno. Lo hanno guidato senza sovrapporsi alle indicazioni che giungevano da lui e lo hanno portato, con quattro chili di muscoli in più, a essere un candidato importante per il podio futuro. Oggi Sinner ha ancora i suoi colpi da campione e sa che cosa fare in quasi tutti i momenti del match e in qualsiasi zona del campo. Non è più il Sinner di prima, ma un altro. Più maturo, e forse anche più italiano, come ebbe a dire Vagnozzi in un’intervista del dopo Wimbledon. «Occorre lavorare ancora in profondità», aggiunse il coach. «Jannik deve migliorare su tutti gli aspetti, a cominciare da quelli del fisico e della tattica. Sarà un lavoro ancora lungo, non c’è settore del suo tennis che Jannik non possa migliorare». Parte di questo progetto è già in essere, e ha contribuito non poco alla bella avventura degli ultimi due mesi (e alle disavventure di chi lo abbia incontrato), conclusi con una Davis intorno alla quale innalzare canti di gioia. Il resto arriverà, magari poco alla volta, ma sempre onorando quello stimolo a crescere presente in ogni discorso che il ventiduenne consegna ai media.
Si rilassi Djokovic, il voto non era contro di lui, né contro le vittorie o i numeri micidiali di cui fa bene a vantarsi, tanto meno era contro Ivanisevic, che a quel premio evidentemente teneva. A dimostrazione (valida anche per lo stesso Nole) che nella vita si può cambiare, non serve essere tutti d’un pezzo né avere convinzioni unilaterali. Ivanisevic era un grande mangiatore di coach, li utilizzava “usa e getta”, come kleenex. Oggi vorrebbe essere lui il più in gamba…
Nella serata del Rosicone d’oro, altri premi sono stati consegnati dalla giuria Vip (very inutil people) al tennis maschile.
A Stan Wawrinka l’Abakuk Award 2023, per come a 38 anni recita nei panni del profeta pensieroso e dolente (uno dei 12 di Israele) che ha dato vita all’espressione “vecchio come il cucco”. A Rublev la menzione speciale “Pila de facioli” per il borbottio continuo con cui ricopre i propri match. Altra menzione speciale “Stai a guardà er capello” a Milos Raonic, rientrato nel circuito dopo anni d’assenza, non più la capigliatura plastificata di Ken (quello della Barbie) ma riccioluto, a evidenziare una confortante ricerca di se stesso. Premio “Scappato de Casa” a Tsitsipas, che ha provato a mollare i genitori scegliendo Philippoussis come coach, salvo fare ritorno quando il pubblico ha cominciato a chiedersi “Chi l’ha visto?”. Infine l’ambito Premio “Aridaje” destinato a chi non smette di vincere. E questo, sì, è andato a Novak Djokovic. E senza contestazioni.
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