L’annuncio della WTA di puntare alla parità di montepremi col circuito ATP non più tardi del 2033 rivedendo la struttura del suo calendario è quanto forse Billie Jean King più auspicava quando nel 1973 assieme ad altre 50 giocatrici dell’epoca organizzò una riunione clandestina nel salone dell’Hotel Millennium Gloucester a Londra, mettendo le basi per l’associazione tennistica femminile. Per quanto King ritenesse la WTA una sorta di ‘piano B’ (il suo obiettivo principale era quello di avere uomini e donne riuniti sotto la stessa associazione ma con eguali trattamenti) essa divenne un motore per lo sport femminile tanto che a oggi sette delle prime 10 atlete professionistiche al mondo per guadagni nel 2022 sono tenniste. Dal prossimo anno il tennis femminile cambierà: un WTA 1000 in più, diciassette WTA 500 ma soprattutto i WTA 250 che diventeranno, nei commenti di chi ha presentato le modifiche, terreno fertile per le giocatrici più lontane dai vertici o giovanissime in rampa di lancio. Il tutto è stato presentato come un importante passo in avanti per un circuito maggiormente fruibile dai media e dai fan, per cercare di mettere al centro le migliori giocatrici creando una scala diversa nella gerarchia dei valori dei singoli tornei e, soprattutto, puntare al raggiungimento dell’uguaglianza del montepremi tra 2027 e 2033. Nei discorsi è qualcosa di intrigante, come in ogni aspetto anche lo sport anno dopo anno cerca evoluzioni e perfezionamenti e il tennis di adesso con lo sviluppo di tanti dettagli anche nel circuito WTA meriterebbe un’attenzione diversa. Certo è che le domande su come tutto ciò possa riuscire ci sono.
L’argomento dell’uguaglianza del montepremi è spesso stato accompagnato da luoghi comuni, commenti inutili, confronti ingenerosi. Durante l’ultimo torneo di Roma si faceva notare come finiti i match maschili sul Campo Centrale il pubblico uscisse e rimassero poche centinaia di persone per quelli femminili. Dipende in questi casi anche dal momento storico: il tennis maschile sta lasciandosi alle spalle i giganti che hanno reso il prodotto ATP incredibilmente popolare, ma in Italia ora ci sono tanti ragazzi giovani e talentuosi che fanno presa sul pubblico, con almeno un terzetto che può fungere da traino per tutti. Al femminile questo non c’è. O almeno: c’è, ma in forma molto più rimaneggiata anche per l’assenza di una leader. Durante il torneo di Madrid qualcuno si era pure risentito perché Iga Swiatek chiedesse un diverso compenso, tirando in ballo la sparuta presenza di pubblico per esempio nella sua semifinale (paragone peggiore non poteva esserci, tra l’altro, dato che entrarono in campo per le 11 di sera complice una programmazione ignobile).
Quello che sembra poco chiaro fin qui è chi sia il responsabile della situazione. Un poco appeal? Una incapacità di gestione dell’azienda WTA? La torta di guadagni si può basare almeno su diritti tv, sponsorizzazioni, organizzazione del torneo. Il mercato setta il prezzo, e qui le questioni si scindono già. Il mercato non ritiene il tennis femminile attualmente comparabile a quello maschile. Secondo la WTA (intesa come azienda) il mercato deve cominciare a riconoscere una miglior compensazione per quanto fatto dalle giocatrici, puntando il dito sulla scarsa motivazione a premiare lo sport femminile. È un campo minato, da tempo ormai, eppure qualcosa non torna. Prendiamo il caso di questa settimana, a Eastbourne: al femminile c’è un WTA 500, al maschile un ATP 250. La campionessa del torneo WTA riceve appena 10.000 dollari in più della controparte maschile (120.000 circa contro 110.000). Possiamo parlare di una domanda diversa, ma la proporzione tra i due eventi è terribilmente sbilanciata e, dati del Financial Times, nei tornei minori nel 2022 si è sfiorato anche il 75% in più di montepremi per il circuito ATP con una differenza che non si vedeva dal 2001. A oggi sono solo sette i tornei che offrono un identico compenso: i quattro Slam, che ormai vivono di vita propria, e tre tornei ‘1000’ (Indian Wells, Miami e Madrid). In questo artificio, però, come rivelato da un articolo del giornalista britannico Simon Briggs, la WTA paga di tasca propria per mantenere il montepremi al livello di quanto l’ATP propone mettendo un sussidio complessivo di circa 31 milioni di dollari. Se a Madrid è esplosa la polemica sulla differenza di trattamento, non si è detto abbastanza su come la IMG detentrice del torneo abbia messo sul piatto appena 3 dei 7 milioni di montepremi per il torneo femminile. Pure i ‘1000’ di Doha, Dubai, Roma, Toronto e Montreal, Cincinnati e Wuhan (spostato ora a Guadalajara) ricevevano un sussidio dalla WTA, questo considerando quanto già il gap sia alto in tornei come al Foro Italico dove l’uomo prende circa il doppio della donna. Secondo Briggs questa non è una questione recente, e fu aggiunta nella speranza che col tempo avvenisse quel livellamento tra uomini e donne che invece sta andando ora ad aumentare anche a causa di scelte aziendali da parte dell’associazione femminile che non sembrano raccogliere frutti.
Swiatek fa bene a chiedere un trattamento diverso. Sta facendo la sua parte, è tra le giocatrici di altissima classifica che sta onorando al meglio ogni torneo in cui va in campo. Però se negli anni 2000 l’ATP è cresciuta a dismisura grazie a Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic, la WTA non sembra essere riuscita a fare altrettanto malgrado diverse giocatrici tutt’oggi ricordate tra le più importanti, prendendo decisioni organizzative che hanno modificato i piani a lungo termine. John Millman a metà maggio scrisse un articolo in cui affrontava l’argomento, dicendo che la questione della parità di montepremi che deve essere dimenticata perché non potrà mai accadere a causa delle pessime decisioni prese dall’azienda WTA, con ATP capace di fare tutto molto meglio e consolidando la propria posizione grazie a contratti tv, sponsorizzazioni e tornei di alto livello come le Finals, in località rinomate e piene di fascino. Al contrario, la WTA è arrivata a un 25% del proprio calendario definito da tornei in Cina. Ha anche aggiunto che le ragazze meriterebbero molto di più di quanto prendono, e devono masticare amaro soprattutto a causa dell’associazione per cui giocano.
Qualche dato: nel 2019 ATP ha avuto introiti per 159 milioni di dollari, 111 quelli della WTA; nel 2020 i valori sono crollati a causa dello scoppio della pandemia e ATP ha fatto registrare 94 milioni, 38 quelli della WTA che ha anche rinunciato a organizzare le Finals; nel 2021, ATP è risalita a 177 milioni circa, WTA invece ferma a 88 (con ancora gravi perdite per la mancanza dei tornei in Cina). A rendere ancor più grave il dato, WTA ha chiuso in negativo di oltre 23 milioni di dollari nel raffronto tra introiti e spese mentre ATP ha avuto un saldo positivo di circa 15 milioni. In questi anni, WTA ha dovuto pagare di tasca propria l’intero montepremi delle Finals: sia i 5 milioni di Guadalajara, sia i 5 di Fort Worth. Se il Messico si rivelò una fortuna per gli spalti spesso pieni, di contro lo scorso anno lo spettacolo a Fort Worth fu desolante tra scarsissima pubblicità e un’arena moderna ma non ben supportata. Hanno sempre aspettato l’ultimo minuto per capire cosa avrebbe fatto la Cina: nel 2020 attesero così tanto (l’ufficialità venne data solo il 2 ottobre) che persero l’occasione di organizzare un torneo a Colonia subito dopo il Roland Garros, con Barbara Rittner allora nell’organizzazione che disse di come i due tornei ATP 250 consecutivi furono dovuti al fatto che WTA non si fece trovare pronta alle loro richieste. Il caso relativo a Shuai Peng fu un altro passaggio molto particolare: nel 2022 non si poteva comunque entrare in Cina, e sentori di dietrofront sul boicottaggio di fine 2021 si erano avuti già con Simon che alle Finals 2022 ammetteva tra le righe di sperare nella riapertura delle frontiere cinesi. Per annunciare il rientro, ha cercato quasi di pararsi da una figuraccia sostenendo come tante tenniste fossero a favore mentre persino la numero 1 del mondo Swiatek ha detto di non aver sentito nessuno chiederle un parere a riguardo. Si tornerà in Cina dunque, dove la WTA nell’ultimo decennio si è legata al punto da costruire una sede a Pechino e avere forti investimenti per un movimento che non ha mai davvero fruttato, con la fotografia di tutto ciò in stadi avveniristici ma spesso desolatamente vuoti. Wuhan, per esempio. Un decennio fa, il governo cinese stanziò una somma enorme per costruire da zero un mega impianto nella città natale di Li Na con la licenza del ‘1000’ ricavata da Tokyo, declassato a ‘500’. Un’arena principale da 15.000 posti, un campo secondario da 5.000. Purtroppo, Li annunciò il ritiro dal tennis a tre giorni dal via dell’edizione inaugurale e le prime annate vissute in uno scenario desolante e racconti di eventi fuori dagli stadi dove qualcuno si esibiva su un palco di fronte a una platea vuota, “ma la Dongfeng (lo sponsor principale) paga e a loro va bene così” ci diceva un membro WTA ormai anni fa rifacendosi alla dimensione di un paese con un miliardo e mezzo di persone in megalopoli dove arene così non rappresentano problemi. A Guangzhou dal 2015 al 2018 hanno giocato il torneo WTA 250 in un un campo centrale da 10.000 posti che risultava sempre vuoto pur magari con qualche centinaio di persone presenti. Le Finals a Singapore come a Shenzhen furono occasioni irrinunciabili per un’azienda che guarda anche alle proprie casse, a discapito però di località con molta più tradizione e in mercati più fruibili: per le Finals nella città cinese, addirittura, si tratta di 1 miliardo in 10 anni di contratto.
Forse le clausole per scindere questi contratti e rompere i legami con la Cina, nel periodo pandemico, erano troppo pesanti e problematiche. Forse semplicemente la WTA ha voluto non rinunciare ai soldi che tornei come Shenzhen e Pechino possono garantire. La scelta di virare a oriente e il navigare a vista di questi anni complicati ha creato un buco finanziario molto importante per un’azienda che sembra aver perso la via di valorizzare a pieno le proprie protagoniste. Ci si gonfia il petto con l’assegno staccato da Ashelgih Barty da oltre 4 milioni di dollari per la vittoria alle Finals 2019 come vincita più alta mai registrata in uno sport femminile, o annunciando che la vincitrice del WTA 1000 di Pechino il prossimo autunno prenderà 1,5 milioni di dollari, ma se dalla dichiarazione di Raymond Moore a Indian Wells 2016 (una WTA che pensa solo ad accodarsi all’ATP) non è cambiato nulla se non essersi ancor più legati alla Cina rischiando concretamente di distruggere il prodotto, allora forse non è solo il mercato a non proporre abbastanza per le giocatrici. Per cercare un po’ di sollievo, nel 2022 è stata annunciata una sponsorizzazione di quattro anni con Hologic mentre nel marzo di quest anno è arrivata una vendita del 20% dell’attività commerciale a CVC, fondo di private equity con 120 milioni che serviranno a rimpolpare un po’ il montepremi. Ora l’annuncio di voler arrivare a una parità con gli uomini, particolarmente ambizioso visto il momento così distante delle due entità, anche perché se venissero confermate le voci di un interessamento da parte di fondi dall’Arabia Saudita per una fetta di ATP sembra logico pensare che la stessa associazione maschile potrà alzare i ricavi e i montepremi malgrado ATP Media abbia fatto registrare solo un 3% in più nell’ultimo anno, segno che forse anche il tennis maschile è giunto a una fase di stallo. Non sono magari le protagoniste a mancare, e loro fanno anche che bene a pretendere di più, ma servirebbe forse che l’azienda WTA per prima riesca a valorizzare quanto ha tra le mani. Non siamo ai tempi di Serena Williams e Maria Sharapova, ma nemmeno da avere un ‘500’ che offra 20.000 dollari a chi fa i quarti, stesso guadagno di chi ottiene i quarti nello stesso evento però di categoria ATP 250. Di certo l’obiettivo 2027/2033 sembra ora molto ambizioso e ai buoni propositi serve più che mai far seguire una linea di crescita.
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