Era nell’aria, ma la decisione degli organizzatori inglesi di escludere da Wimbledon i tennisti russi e bielorussi ha sollevato ugualmente un inevitabile polverone di polemiche.
A restare fuori dal torneo maschile un atleta bielorusso e quattro russi tra i primi 30 del ranking mondiale, tra cui i top player Daniil Medvedev e Andrej Rublev; invece tra le atlete femminili ben 11 resterebbero escluse come la bielorussa Aryna Sabalenka, semifinalista della scorsa edizione e numero 4 della classifica WTA.
La decisione dell’All England Club ha fatto storcere il naso a molti, non operando alcuna distinzione tra una nazione e il singolo che vi appartiene in una sorta di sineddoche geopolitica: una singola parte finisce con l’equivalere al tutto. Quello londinese diverrebbe un precedente pesante perché in contrasto con la posizione degli enti internazionali ATP e WTA che hanno consentito ai tennisti russi e bielorussi di partecipare alle competizioni seppur senza bandiera, come neutrali. Gli organizzatori di Wimbledon invece si sono allineati alle richieste del governo britannico che non è disposto ad accettare che un evento sportivo simbolo del Regno Unito come la storica kermesse tennistica possa ospitare atleti appartenenti a un paese invasore. In passato si sono verificati rarissimi casi di atleti “bannati”, forse il più celebre risale al 2 giugno del 1985 quando l’UEFA vietò alle squadre di calcio inglesi di giocare in Europa.
Il divieto era dipeso dalla morte di 39 tifosi italiani e belgi allo stadio Heysel di Bruxelles in seguito a una rivolta causata dai teppisti inglesi nella finale di Coppa Europa di quell’anno, Juventus- Liverpool. Una misura che da un lato accomunò ingiustamente singole e ben diverse tifoserie a un unico pubblico da redimere ma che dall’altro portò al cambiamento strutturale del calcio inglese e alla fine dei famigerati Hoolingans. Ma la motivazione dell’esclusione dalle competizioni nei confronti delle squadre inglesi, incolpevoli come i tennisti russi, non aveva in quel caso una matrice politica. La linea dura infatti scelta oggi da Wimbledon come reazione al conflitto russo-ucraino intreccia inesorabilmente sport e politica, che una volta rimasti impigliati generano agguerrite fazioni opposte.
La condanna unanime della guerra non ha difatti impedito di criticare l’esclusione degli atleti russi dalle competizioni. Una “follia” per Djokovic che si definisce un figlio della guerra nei Balcani: “So il trauma emotivo che lascia una guerra, tutti sappiamo cosa è successo in Serbia nel 1999. Tuttavia non posso sostenere la decisione di Wimbledon, penso sia pazzesca. Quando la politica interferisce con lo sport, il risultato non è mai buono.” Si tratterebbe di una scelta illogica e priva di senso, insomma di una discriminazione anche per il moscovita Rublev che auspica un dialogo con Londra per il raggiungimento di una soluzione, magari attraverso la donazione all’Ucraina del montepremi guadagnato dai tennisti russi durante il torneo. Il tennista pur ribadendo la presa di distanza dal conflitto non ha voluto parlare di politica, perché sostiene di non saperne niente, lui vuole solo giocare a tennis, fare il proprio lavoro e mostrare che in Russia ci sono brave persone.
Nel frattempo però l’orientamento inglese ha aperto brecce profonde nel panorama tennistico tanto che anche l’Italia si sta interrogando sull’adozione delle medesime misure per gli imminenti Internazionali di Roma. Il ministro degli Esteri Di Maio ritiene che le sanzioni siano gli unici strumenti pacifici che abbiamo a disposizione per fermare la guerra e isolare la Russia. Appoggia totalmente la scelta inglese l’ex tennista ucraino Dolgopolov, tornato in patria a combattere, che accusa Andrej Rublev di ipocrisia quando sostiene di non voler parlare di politica perché non informato a sufficienza. Secondo Dolgopolov, le dichiarazioni di Rublev sono mera propaganda, la scarsa informazione sulla politica e sugli avvenimenti degli ultimi due mesi non sono giustificazioni accettabili. Tutto può essere, le parole del tennista moscovita possono essere il frutto di un cinico disinteresse, di un sagace opportunismo oppure di un angosciante timore per le sorti di chi è rimasto in Russia, come un padre, una madre e una sorella. In questo caso le parole pronunciate da Rublev potrebbero essere lette proprio come una sineddoche, nella sua forma più sublime, quella in cui una parte rappresenta davvero il tutto: la famiglia.
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