Eccolo di nuovo, il Berrettini sulle ventitré, nella sua versione più ricca di fascino.
Mette in campo il glamour di un tennis che levita fra le più seducenti contraddizioni. Il brivido di velocità ipersoniche, che riducono tutto all’essenziale, e trasformano alle dimensioni di una normale seduta di gioco, i primi due set combattuti fin quasi alla rissa. Spari di colpi che somigliano a giochi d’artificio. Game che durano meno di quanto occorra a pronunciare il nome chi sia alla battuta. Serve… Già finito? Palline che viaggiano come in un toboga, impazzite, letali. Lo scambio più bello arriva all’inizio del terzo set. Sul 2-1 c’è Berretta che attacca, spinto dall’effluvio di un break che avverte vicino.
Anderson lo scavalca di pallonetto, lui corre, colpisce spalle alla rete un tweener promettente, ma gli riesce basso e il sudafricano tira giù uno smash violento, sul lato esterno. Berretta è già lì, non chiedeteci come. Teletrasporto? La replica è di contro balzo, un passante che schizza oltre i 150 orari e procura al povero Kevin una forte ammaccatura nella propria autostima. Il pubblico urla al miracolo, l’applauso è sincero, piovono anche richieste di matrimonio. Matteo alza il dito indice in alto. Roba da numero uno.
È di nuovo un Berretta da fotofinish. Quanto meno, gli somiglia. Ricorda il giocatore che ribaltò Monfils allo US Open di due stagioni fa. Gioca sul bordo di un cratere arroventato, ma senza paura di cadere giù. Il primo set sembra addirittura il proseguo di quei match che lo trascinarono alla semifinale con Nadal. Anderson gioca da Berrettini, quando è al meglio, e nel primo set ci riesce. Sfrutta qualche piccola falla nella serenità dell’azzurro per dare punti di appoggio al suo tennis da poco ritrovato. Kevin, nelle ultime tre stagioni, è stata finalista a Wimbledon e agli US Open, poi qualche acciacco l’ha spinto indietro, ma nel primo set è troppo presto per avvertire la stanchezza di una preparazione fisica ancora da perfezionare.
Così, il sudafricano trova quattro palle break nel corso del set, e Berrettini gliele annulla a colpi di servizio. E nel tie break ne vengono altre quattro, una sola per fortuna sul suo servizio. Lì è bravo Matteo a non sciogliersi. Mette in campo la faccia di chi ci crede, e fa bene. Anderson va avanti 6-3 e si ritrova di colpo appaiato. Ma è solo l’inizio di un lungo botta e risposta. Nel quale Berretta ritrova vigore, e insieme la convinzione che il match possa girare d’improvviso dalla sua parte. Al ventesimo punto Matteo sfrutta finalmente il suo set point. È un set che vale mezza vittoria.
Chiedono che cosa gli venga da pensare quando si trova a giocare contro tennisti che hanno colpi molto simili ai suoi. «Capisco come si sentono gli altri quando giocano contro di me», la risposta.
«Ma non siamo esattamente uguali, io e Anderson. Il suo dritto non è il mio, e il mio rovescio non è il suo. Però, è vero, abbiamo qualcosa in comune. Con noi, per esempio, i game durano poco, e può succedere qualcosa da un momento all’altro. Attenzione, energia e pazienza. Serve questo per non ritrovarsi a inseguire. Contro Kevin le ho messe in campo tutt’e tre. Mi serviva una vittoria del genere. Mi fa bene. Mi restituisce emozioni che l’anno scorso non ero riuscito a ritrovare».
Percentuali alte. Quattordici ace (diciotto il sudafricano), l’89% addirittura di prime battute vincenti, due break realizzati sui sette avuti in dote, e un ottimo 45-15 tra vincenti ed errori forzati. «Decisivo il primo set, ma l’ho giocato convinto che se anche lo avessi perso, prima o poi avrei avuto le occasioni per rifarmi. Insomma, stavo in campo con la giusta mentalità».
Qualche dubbio gli era venuto la domenica della finale con i russi in ATP Cup. Medvedev gli ha permesso poco o nulla, la sconfitta – fosse stato pugilato – sarebbe venuta per getto della spugna. «Credo sia il più in forma, il russo. E mi sembra anche molto più convinto di una volta su quelle che sono le sue reali possibilità. È letteralmente micidiale… È una sconfitta che mi ha bruciato dentro, ma non posso fare altro che prenderne atto e lavorare per avvicinarmi quanto più possibile a quei livelli».
Contro Tomas Machac, 199 ATP, potrebbe bastare meno. Ma Berretta non si fida, e fa bene. «Qualche disillusione l’anno scorso l’ho avuta, proprio contro giocatori di classifica molto inferiore alla mia. Studierò con Santopadre il gioco del ceco, ma voglio tenere alta l’attenzione». Poi Khachanov. E dopo Tsitsipas… Il torneo è ancora lungo.
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