Il day after della finale femminile dello US Open lascia sensazioni molto dolci. Abbiamo un torneo che nello scenario collettivo non avrebbe nemmeno dovuto cominciare a causa dell’emergenza covid-19 negli Stati Uniti, ma che grazie a un lavoro enorme della USTA è riuscita ad arrivare al termine.
Non in maniera perfetta, perché c’è chi ha pagato duramente le indecisioni a livello sanitario nei protocolli tra la città di New York e lo stato, ma la bolla ha retto e con tutte le persone coinvolte non era affatto scontato.
Se riprendiamo i commenti e le sensazioni di metà giugno, alla conferenza stampa di presentazione, i dirigenti USTA sembravano dei visionari. Il trend di New York, stato, era ottimo e in continuo miglioramento dopo i giorni drammatici tra marzo e aprile. Già allora era uno stato tra i migliori degli USA nel rapporto positivi/tamponi effettuati, ma i timori non potevano svanire così. Si sono presi un rischio importante, hanno subito critiche e attacchi, hanno subito forfait importanti che hanno indebolito il tabellone, ma almeno a livello femminile le protagoniste più attese hanno reso onore e tolto la parola “asterisco” dai tanti maligni che volevano questo torneo Slam declassato.
C’è stata meno competitività ad alti livelli? Probabile, ma le semifinali e poi la finale hanno creato tre momenti da incorniciare. Non è forse qui che serve andare a tutta? Ed ecco che Naomi Osaka ha giocato una delle tre partite più belle della sua carriera (parole sue, e le crediamo senza alzare dubbi) contro Jennifer Brady, mentre Victoria Azarenka si è presa la prima vittoria Slam contro Serena Williams rimontando un netto e pesante 6-1 subito. E già che ci siamo, col cuore, grazie Vika. La finale non sarà finita come speravi, ma la tua storia fa emozionare. Forse ora gli spostamenti laterali non reggono più la continuità che dovrebbero ad alti livelli e nella finale alla lunga Osaka ha preso le misure dopo una partenza terribile, ma umanamente per noi è stato un piacere rivederti così e per te sarà stata una goduria vivere tre settimane che sono valse rivincite su tutti.
Non giriamoci intorno: a questo punto, sul finire del 2020, chi avrebbe puntato su di lei per riavere una giocatrice competitiva a questi livelli? Dubitiamo possano essere più di pochi, fedelissimi, appassionati. L’Azarenka post maternità non è mai stata molto competitiva e purtroppo i tantissimi problemi extra campo l’hanno spesso bloccata. “Se diventi mamma non vuol dire che dimentichi come si fa a giocare” parole di Tsvetana Pironkova, altra grandissima protagonista a Flushing Meadows. E di quello nessuno effettivamente dubitava, soprattutto per una campionessa come Azarenka, ma si era bloccata in un circolo da cui era molto difficile uscirne. Non riusciva a giocare con continuità, anzi spesso doveva fermarsi per pensare alla causa legale dell’affidamento del figlio, scendeva nel ranking, riappariva dopo mesi completamente segnata dalle vicende. La ricordiamo a Indian Wells nel 2018 nella prima conferenza stampa dopo 9 mesi di assenza col viso di chi aveva sofferto tanto, molto più asciutta e con gli occhi tristi. Non ha mai voluto accennare a quello che succedeva fuori dal campo, ma spesso era inevitabile fare un 2+2 che voleva dire dover lottare per qualcosa di più grande. Il tennis è un gioco, ma per lei è anche e soprattutto un lavoro, è quello che le da da vivere, e per tutto questo tempo lei doveva scegliere tra il lavoro e il vedere il proprio figlio. Ha scelto di rimanere in California per stargli vicino, ha avuto un crollo emotivo pesante a inizio 2019 quando all’Australian Open perdeva al primo turno e si scioglieva in un pianto di fronte ai microfoni che raramente si ricorda da parte sua. E poi quest anno, con i tanti dubbi se dire basta tra gennaio e febbraio prima di non cedere e riprovarci.
L’inizio, a Monterrey, fu un trauma. Poi la pausa, la nuova preparazione, e l’incredibile rendimento delle ultime settimane. Il suo preparatore atletico, secondo alcune dichiarazioni riportate dall’Equipe, raccontava senza parole che la situazione a inizio anno era sportivamente drammatica. E adesso è su quel palco dello US Open, con un trofeo in mano e il figlio in tribuna a guardare sua mamma che con una dignità enorme ha accettato la sconfitta e ha dato un insegnamento di grande valore quando nessuno lo credeva più possibile. Contro questa Osaka, la Osaka che ricostruiva il suo tennis e cominciava a macinare dritti pesanti e servizi più al suo standard, ha ceduto soprattutto a livello fisico perché di testa, invece, si è data una chance fino a quando non ha sentito “game, set and match”.
Osaka, ancora lei. Due anni fa si faceva conoscere al pubblico mainstream con quella affermazione di pura classe contro Serena Williams in mezzo all’inferno che era quella sera l’Arthur Ashe Stadium. I fischi. Gli insulti. Le urla. Le accuse. E nel mezzo lei, triste, che piangeva con un trofeo in mano e la delusione di una serata da sogno contro quella che lei ritiene essere la sua madre tennistica rovinata da tutto il contesto creatosi. Era una ragazzina molto introversa, che cercava di rifugiarsi nelle battute (di dubbio gusto) per poter comunicare con gli altri smorzando una sorta di pressione che si sentiva addosso. Due anni dopo, quella ragazzina ha fatto progressi da gigante. Già dallo scorso anno ha cominciato a prendere i gradi di leader. Una leader silenziosa, ancora abbastanza introversa, ma che quando parla fa tanto rumore. Oggi, a nemmeno 23 anni, ha messo in bacheca il terzo titolo Slam su sei affermazioni fin qui in carriera. Ma soprattutto, si è esposta in maniera importante in ottica mondiale per le sue posizioni recenti sulla sua comunità, facendosi portavoce assieme ai giocatori di NBA di qualcosa di molto importante. Noi, italiani ed europei, non arriveremo probabilmente a capire a pieno come mai abbia deciso di unirsi al boicottaggio di LeBron James e compagni durante il torneo di Cincinnati e poi abbia deciso di scendere in campo in ogni turno dello US Open con un nome sulla mascherina. Non abbiamo la giusta empatia, non siamo parte di quell’universo, non abbiamo “fratelli” che subiscono regolarmente circostanze così atroci senza che i responsabili effettivamente vengano puniti. Ed è questo il fattore che più di tutti provoca rabbia tra la comunità nera: Breonna Taylor è morta nel suo letto di casa senza alcun reato commesso, senza aver rappresentato una minaccia per i poliziotti che sono entrati convinti di trovare della droga e a un accenno di reazione del compagno di Breonna, spaventato (e senza droga), hanno cominciato a sparare. Breonna è morta, i poliziotti sono ancora a piede libero e a nessuno sembra importare.
Non è un problema di questo momento storico, la violenza della polizia si manifestava da sempre. Più in generale, la difficoltà di condannare questi episodi sembra essere esplosa con grande potenza ora che più loro protestano e più il presidente Donald Trump ne approfitta per dividere ulteriormente il paese e puntare il dito contro di loro definendoli terroristi. Osaka, in loro difesa, è scesa in campo ricordando uno a uno sette persone vittime di questi episodi di grande diseguaglianza e abusi. Adesso si è detta intenzionata a voler incontrare i parenti delle vittime, con molti di loro che durante il torneo le hanno mandato dei video pubblicati dalla ESPN in cui esprimevano grande supporto ed emozione per quello che stava facendo. È qualcosa di ben più grande di una partita di tennis, probabilmente nessuno di loro la conosceva, o probabilmente non sotto questo aspetto, e le sue gesta hanno avuto un risalto enorme nel Nord America. Le televisioni generaliste, i social, i giornali, tutti a mostrare e a parlare di questi episodi. Ed è esattamente quello che lei voleva. La storia di Tamir Rice, ragazzino dodicenne ucciso con due colpi di pistola al petto per avere in mano una pistola giocattolo, è finita sui principali media giapponesi che reagivano increduli di come si potesse arrivare a questi gesti.
Nel frattempo, Osaka, viveva questo US Open che passo dopo passo la portava sempre più in alto. Negli USA l’attenzione verso di lei cresceva e i rischi che in caso di sconfitta piovessero critiche per possibili distrazioni e di pensare al campo. Lei ha risposto in un solo modo: vincendo, e replicando in modo semplice ma diretto a Tom Rinaldi che durante la premiazione le ha chiesto che significato avessero quelle maschere. Lei: “Che significato hanno per te?”. Parla poco, ma ormai è diventata una persona che fa tanto bene al nostro sport perché si batte con carisma e convinzione in quello in cui crede, che poi rappresenta il bene morale della nostra esistenza. Non c’è nulla di politico o sbagliato nel chiedere più dignità e riconoscimento per esseri umani come lei.
Sia lei, sia Azarenka, sono in questo momento un bene prezioso per il nostro sport. Storie diverse, percorsi diversi, ma il tennis deve essere felice e orgoglioso di avere queste personalità.
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