“La mattina del suo dodicesimo compleanno, Legacy Petrin si risvegliò proprio mentre stava sognando di giocare a tennis con una racchetta alata. Sbatté le palpebre, e si accorse di avere ancora il sorriso stampato sulle labbra. Per alcuni istanti si lasciò cullare, inseguendo
le linee brune di una macchia sul soffitto, ma presto allungò la mano sotto il letto per tirare fuori la racchetta. Legacy l’amava più di qualsiasi altro oggetto avesse mai posseduto. Si sentiva se stessa solo tenendola in mano. La strinse, e avvertì un rinnovato senso di calma
diffondersi lungo il corpo. Quando si alzò e attraversò la stanza, portando con sé la racchetta e una palla da tennis ormai priva di pelo, le pietre sotto i piedi non le sembrarono più così fredde…”
Game, Set and Magic. Con la firma del Mamba.
La storia della piccola Legacy comincia da qui per poi dispiegarsi lungo le pagine di un libro di grandi e piccole magie, accurato nella scrittura e arricchito da splendidi disegni, moderni ma dai colori antichi. La protagonista vive nella periferia dell’affatata capitale dell’incantato regno di Nova. Aiuta il padre nella gestione di un orfanotrofio in cui il gioco del tennis è lo svago condiviso da tutti i piccoli ospiti. Legacy si esercita ogni giorno contro il muro di pietra che fa da facciata allo stabile.
È agile, svelta, propositiva, sempre molto attenta e impegnata. Un po’ Coco Gauff e molto Naomi Osaka, con il carattere invincibile di Serena Williams. Dunque bravissima, o forse di più, portentosa. Così, quando Silla, regina di Nova, organizza un torneo in modo che i cittadini possano conoscere la Palace Academy, mettendo in palio un premio talmente ricco da garantire la sopravvivenza dell’orfanotrofio, Legacy non esita a scendere in campo per battersi contro avversari potenti e un bel po’ malmostosi, esperti di tennis e magie, che escogitano qualsiasi trucco pur di sabotarla, costringendola persino a domare un cavallo alato che soffia infocati sospiri dalle froge dilatate come la bocca di un obice.
“Legacy and the Queen” è il libro. Dedicato ai bambini e molto apprezzato dalla critica. Non un best seller, ma quasi. Firmato dalla scrittrice Annie Mathew, è tratto da una storia ideata da Black Mamba, Kobe Bryant, e ha una particolarità che assume il valore di un testamento, oggi che il gran pubblico del basket e tutto lo sport insieme non hanno ancora smesso di piangere l’idolo scomparso nella tragedia del 26 gennaio scorso, quando l’elicottero che conduceva a casa Kobe e la figlia di quattordici anni, Gianna Maria-Onore si è schiantato con altre sette persone nella notte di Calabasas, una piccola città a
ovest di Los Angeles.
L’originalità dello scritto sta nella scelta tennistica operata da Kobe. L’amatissimo campione del basket, la stella più fulgida degli ultimi venti anni dei Lakers, l’uomo d’oro di due edizioni dei Giochi Olimpici e vincitore di cinque campionati Nba, il terzo miglior realizzatore di sempre nella storia della formazione guida del basket americano, detentore di undici record assoluti e di altri 29 iscritti nell’Albo dei Primati della sua squadra, l’unico monumento della pallacanestro attuale che possa fare ombra ai numi del passato Wilt Chamberlain e Michael Jordan, ha scelto il tennis per regalare ai bambini una metafora sulla vita, sull’impegno che serve nell’affrontarla, sull’indispensabile dedizione e la necessaria forza d’animo, sui pericoli che determinano i percorsi più disagevoli, sulla condivisione del proprio ardore con le persone che più si amano.
La piccola Legacy è la sua eredità. «E io vorrei tanto somigliarle», ha detto con il cuore Naomi Osaka.
Pillole di “Mamba Mentality”, a uso dei più piccoli. La mentalità del Mamba è l’altro libro firmato da Kobe. Il più fortunato e per lui il più facile da scrivere. «Dedicato alla generazione futura dei grandi atleti. Nella speranza che possiate trovare, nel percorso compiuto da altri, la forza necessaria per tracciare la vostra rotta. E che la vostra sia migliore della mia», disse il Mamba nero, senza immaginare che i precetti di una vita «cominciata da un sogno», la cui unica strada per prendere forma fosse quella di «adottare una mentalità vincente e focalizzarmi a fondo sugli aspetti mentali del gioco che amo», avrebbero trovato nei tennisti gli adepti più fedeli, le citazioni più continue e appropriate, il terreno fertile per diventare storia comune. Fra le ragazze, ancor più che nel tennis maschile.
Così, nel giorno della scomparsa di Kobe, immerse nella bagarre più vorticosa di un grande torneo come gli Australian Open, non furono poche le giocatrici che rivolsero un pensiero all’idolo del basket, rendendogli omaggio allo stesso modo della sua giovane amica Coco Gauff, che proprio “Mamba Mentality” volle scrivere sulle scarpe con cui scese in campo, chiedendo al ricordo di Kobe, insieme, «il sostegno per i passi più difficili e la spinta per volare in alto il più possibile».
Lavoro, concentrazione, studio, senza perdere mai di vista il sogno che muove tutto ciò, e il divertimento, l’appagamento che ne deriva. Black Mamba la spiegava così: «La mentalità non riguarda un risultato da raggiungere a tutti i costi, quanto piuttosto il processo che conduce a quel risultato. Riguarda il percorso e l’approccio. È uno stile di vita. Penso che sia importante adottare questo metodo in ogni impresa». E non mancava di sottolineare che «il punto non è essere Kobe Bryant, ma diventare il Kobe Bryant di se stessi». Sembra di sentire Rafa Nadal.
I due non si sono mai conosciuti di persona, ed è curioso scoprire come abbiamo dato vita a una delle frequentazioni più assidue che siano sbocciate fra campioni di sport tanto diversi. Il tutto per interposta persona. Pau Gasol… Sette stagioni nei Grizzlies di Memphis e sette nei Lakers, prima di chiudere l’esperienza americana con i Bulls di Chicago, gli Spurs di San Antonio e i Bucks di Milwaukee. Il miglior giocatore spagnolo della Nba. Amico vero del Mamba (sua la prefazione a “Mamba Mentality”, non a caso) e più ancora del Toro di Manacor.
Un uomo che seppe lanciare la sfida della fratellanza a due degli animali più pericolosi dell’intero serraglio sportivo. «Ci sentivamo spesso con Kobe, in realtà senza sentirci mai», ha raccontato Rafa. «Faceva tutto Pau, mi riferiva ciò che Bryant voleva dirmi e poi gli esponeva i miei punti di vista. Era come un gioco, e ci tenevo tanto. Mi mancherà, come a tanti, come a tutti. La sua etica del lavoro è stata un’ispirazione. E quella resterà per sempre».
Il libro di Legacy fu presentato il 3 settembre 2019. Una copia, quella sera stessa, venne consegnata all’albergo di Nadal, con il nome di Rafa scritto con lo stesso svolazzo della firma poco più sotto, sulla quale campeggiava un grande 24, il numero del Mamba. Fu Rafa il primo a riceverlo in regalo, quasi un trofeo in più in quella trasferta che cinque giorni più tardi gli consegnò la quarta vittoria sul cemento più democratico del tennis, quello degli Us Open.
Fu McEnroe invece il primo a volerne carpire i segreti, convinto che il libriccino avesse più sostanza di quanta ne lasciasse immaginare una storia esplicitamente scritta per i bambini. Intervistò Kobe il giorno stesso nel suo studio televisivo di Flushing Meadows chiedendogli che cosa, più di tutto, gli piacesse del tennis. «Osservare come i giocatori gestiscono la strategia», fu la risposta. «Noi del basket diamo per scontato che nel momento di difficoltà uno della squadra saprà come venirci in soccorso. Ma nel tennis sei tu che devi risolvere i problemi». Johnny Mac, insaziabile, chiese anche se vi fosse un possibile accostamento tecnico, fra due discipline sportive così diverse. Il Mamba quasi lo prese in contropiede. «Ve n’è più d’uno di punti in comune», rispose, «ma non c’è dubbio che la parentela più vicina venga dal gioco dei piedi, dalla capacità estrema di avviare un’azione, un movimento, magari velocissimo, e d’improvviso rallentare, o fermarsi del tutto, sempre regolando il corpo nella posizione più adatta per ripartire o per interagire con la palla». Risposta da campione, a detta di SuperMac.
Il tennis è entrato nella vita del Mamba non troppo presto, e un po’ per caso, subito dopo la fine della sua parentesi giovanile in Italia e dopo aver trovato il posto che faceva da centro di gravità permanente del suo sogno, fra gli adorati Lakers (nel 1996, diciottenne, si dichiarò eleggibile per il Draft Nba, preso dagli Charlotte Hornets come tredicesima scelta, ma subito girato alla squadra di Los Angeles). Negli ultimi anni italiani, a Reggio Emilia, Kobe ebbe qualche vicinanza amichevole con Alessandro Motti, di un anno più giovane. Giocavano entrambi a basket, stessa società ma squadre diverse, e nessuno di loro avrebbe immaginato che uno sarebbe salito fra i primi cento Atp del doppio (poi coach di Julian Ocleppo, a fine carriera) e l’altro, addirittura, avrebbe frequentato da protagonista il grande palcoscenico della Nba. «Kobe lo ricordo bene», racconta Motti, «sebbene quando partì per tornare in America ci perdemmo rapidamente di vista. Non c’erano social né WhatsApp, non era come oggi. Lui aveva i riflettori sempre su di sé, perché il padre Joe era la stella della prima squadra e tutti s’interessavano a Kobe, cercando di intuire quanto sarebbe diventato forte. E sinceramente in pochi ne erano convinti.
Aveva movimenti bellissimi, ma non passava mai la palla. Giocava da solo. Io praticavo già il tennis, e mi chiedevo se un tipo del genere non si fosse trovato meglio con una racchetta in mano. Mi sbagliavo, evidentemente. Ma forse qualcosa avevo intravisto… Mi hanno raccontato che quando Kobe prese la racchetta, la prima volta, fu rapidamente in grado di giocare una partita. Aveva un fisico armonico, nato per lo sport».
Così, il tennis ha fatto capolino nella vita di Kobe con la nascita delle figlie, Natalia Diamante la prima, nel 2003, poi Gianna nel 2006, Bianka Bella nel 2016 e Capri Kobe il 20 giugno del 2019, tre mesi prima dell’uscita di Legacy and the Queen, un libro che il Mamba immaginò proprio per loro. «Quando guardo le mie figlie, a casa, che giocano o studiano, così distanti per età eppure ognuna con un tratto, una somiglianza, un qualcosa che le collega a me», dichiarò proprio durante la presentazione del libro, alla quale volle invitare anche la sua figlia tennista prediletta, Naomi Osaka, «penso che non dovrò mai smettere di insegnare loro come gestirsi e crescere in questa società, e di farlo di pari passo con lo sport che sceglieranno. Ritengo il tennis indispensabile in questa crescita, perché ha sfide costanti, e devi affrontarle da solo. Anche se giochi un set perfetto, con grandi colpi, non puoi rilassarti. Devi andare avanti. Affrontare le emozioni più profonde. Credo davvero che il tennis sia una buona metafora della vita».
Kobe ne fece prima il sostegno alla sua forma fisica, sempre perfetta, poi il suo piacere quotidiano, quando capì che la parabola nel basket era ormai giunta agli ultimi canestri. Robert Pelinka, ex agente e vicino di casa, suo grande amico e padrino della figlia Gianna, lo racconta così: «Ero e sono socio di un bel club, a Los Angeles, e da un giorno all’altro mi ritrovai il Mamba in campo, che voleva sfidarmi a tutti i costi. Aveva studiato come giocavo, cosa facevo, come tiravo i colpi, come reagivo, i miei punti deboli. La mia resistenza. Tutto. Tipica mentalità Mamba… Ma allora giocavo meglio di lui, e ancora riuscivo a contenerlo. Si lamentava a voce alta, “che stai facendo Black Mamba? Ti lasci andare, non reagisci?”. Poi sparì per qualche tempo. Lo cercai, tergiversava, alla fine accettò di tornare in campo con me. Ed era diventato un giocatore vero. Scoprii che si era iscritto allo stesso circolo e aveva imposto al capo dei maestri delle clamorose alzatacce mattutine per allenarlo e migliorare tutti i suoi colpi. Non solo, aveva preso a frequentare tutti i tornei più importanti, per conoscere l’ambiente e i giocatori. Aveva incontrato Federer, Djokovic, Serena. Ma il suo preferito era Nadal. Il suo tennis lo emozionava. Mi rivelò che da tempo stava provando il top spin dello spagnolo, con il dritto, ma ancora si sentiva insicuro. Per fortuna, perché mi prese letteralmente a pallate».
Il tennis del Mamba, oggi, è nel ricordo di chi lo ha conosciuto. Nella maglia numero 24 dei Lakers, indossata da un afflitto Nick Kyrgios prima di scendere in campo per affrontare Nadal a Melbourne, il giorno dopo la tragedia. Quella stessa maglia che, nella stessa giornata, tante persone fra il pubblico della Rod Laver Arena hanno infilato alla meglio sulle magliette, sulle felpe, sulle giacche, convinte da un silenzioso passa parola che quel tributo fosse doveroso. È nelle lacrime inconsolabili di Djokovic, mostrate senza pudore a fine partita. «Mi ha aiutato in un momento di grande difficoltà, ci siamo incontrati e parlati in più di un’occasione, e ha trovato sempre le parole giuste. Ho avuto la fortuna d’avere con lui un rapporto personale negli ultimi dieci anni. Un rapporto molto stretto che mi piace definire di amicizia».
È nel racconto commosso di Roger Federer, svegliato prestissimo dalla moglie che aveva appena saputo della tragedia. «È stato terribile, un vero shock. Penso alla sua nobilissima figura di sportivo, e alla terribile perdita per le figlie, che Kobe amava moltissimo. Era la loro guida indispensabile». È nelle dichiarazioni di chiunque lo abbia conosciuto anche solo per un momento, e condiviso con lui un saluto, o un pensiero. Maria Sharapova. Sloane Stephens. Tante altre…
È nella lettera triste e affettuosa che l’amica più cara, Naomi Osaka, ha affidato ai social. “Caro fratellone, grazie per aver ispirato persone ovunque, tu non hai idea di quanti cuori sei riuscito a toccare. Grazie per essere stato così umile e non aver mai agito per la grande persona che sei. Grazie per esserti curato di me e aver controllato come stavo dopo le sconfitte più dure. Grazie per avermi mandato messaggi del tutto inaspettati, chiedendomi “tutto ok?”, perché tu sai quanto complicata sia, a volte, la mia testa. Grazie per avermi insegnato così tanto nel poco tempo in cui sono stata fortunata abbastanza da averti conosciuto. Grazie per essere esistito. Sarai per sempre il mio grande fratello, il mio mentore, la mia ispirazione. Ti voglio bene”.
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