Quando arriva in sala stampa a Melbourne Park è già devastato.
Ha quell’aria spaesata di chi sa che deve fare una cosa perché è giusto farla, di chi sa che ora è cresciuto e deve vivere questa situazione come fanno gli adulti: dentro ad ogni atleta, però, quel bambino che ha iniziato a giocare e a sognare di sport, di tennis, rimane sempre. Quello che si arrabbia con se stesso, che da se stesso pretende, che non si capacita di dover gestire anche le proprie emozioni.
E per quanto ci provi, Andy Murray non ce la fa: non riesce a non piangere, disperarsi, arrendersi davanti a tutti, regalarci, ancora una volta, tutto se stesso, come ogni volta.
“Mi dispiace ma non ce la faccio più, non posso più giocare con questo dolore all’anca, ho provato di tutto”.
E ha ragione lo scozzese, ha provato di tutto: operazioni, terapie conservative, terapie d’urto, fisioterapia dolce e aggressiva, tempo da darsi e dedicarsi. Non è servito a nulla se non a sbattere contro la realtà: non può più competere a livello professionale, la giostra si è tristemente fermata.
Arriva non esattamente a sorpresa, tutti tra addetti ai lavori e appassionati sospettavano da un po’ che non ci fosse tanta speranza a cui aggrapparsi, però non ci si aspettava troppo presto questo annuncio.
Andy vorrebbe chiudere a Wimbledon, con uno scenario familiare e amato, in un tempio che lo ha visto trionfare (in Patria) due volte, con l’amata erba e la brezza londinese ad accompagnare le sicure lacrime. Ammette però che non sa se riuscirà ad andare oltre gli Australian Open.
Ci lascia (tennisticamente) la figura forse più sincera e autentica che abbia ultimamente calcato i campi da tennis, nonché uno dei pochi dotato di una fine ironia: definito il più “debole” dei Fab4, a “Muzza” è forse mancata la continuità di vittorie degli altri tre mostri, mai però quella per rimanere al top a lungo, olimpo iniziato da giovanissimo, perché Murray è sempre stato ambizioso e ha lavorato duramente per costruirsi un fisico potente (che lo ha poi tradito) e completarsi tecnicamente (soprattutto nel periodo passato con Ivan Lendl, che lo ha portato alla vittoria).
Mai impaurito nell’esprimere la propria opinione, è spesso stato investito da critiche feroci: dagli inglesi quando si schierò apertamente per il referendum sull’indipendenza scozzese, dai colleghi a causa delle sue posizioni femministe, da alcuni addetti ai lavori per le sue opinioni estreme e parecchio critiche sui controlli anti-doping da migliorare e potenziare.
Educato da una donna forte, la mamma allenatrice Judy Murray, non ha esitato a differenza di molti ad assumere un coach donna, Amelie Mauresmo, altra scelta che fece storcere il naso a tanti in un ambiente piuttosto maschilista come l’ATP Tour.
A vent’anni dalla sua morte, oggi Faber commenterebbe così:
Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati
E per quanto oggi dispiaccia e faccia male, anche in questo caso aveva ragione lui.
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