Che cosa pensi della stagione di Kiki? Quanto sei orgoglioso del fatto che lei sia qui a Singapore?
Molto, molto orgoglioso. È stata una grande stagione, soprattutto parlando a livello di lavoro. Questo è stato il punto di cambiamento. Noi stiamo lavorando assieme da 3 anni e le scorse due stagioni sono state buone a loro modo, ma a livello lavorativo c’erano stati alti e bassi. Kiki dopo una sconfitta dura aveva l’abitudine di andarsene per qualche giorno, allenarsi di meno, non concentrarsi sul cibo o su che cosa dovesse fare, e quindi queste stagioni hanno avuto delle difficoltà. Dovevamo cercare di limitarle e concentrarsi sulle cose che possiamo fare meglio. Questa è stata la cosa che ha fatto veramente, veramente bene ed è la cosa di cui sono maggiormente fiero perché per lei non è affatto naturale.
Lei ha parlato tanto a proposito della scorsa off season e di come avesse cambiato atteggiamento andando verso il 2018. Che ricordi hai di quel momento?
Ricordi molto, molto nitidi. Lo scorso anno l’unica ragione per cui sono rimasto con lei era perché loro, e con loro intendo Kiki Bertens e Johanna Larsson, erano ancora in corsa per arrivare a Singapore in doppio. Se parliamo solo del singolo, io me ne sarei andato a casa. E gliel’ho pure detto. Dopo le Finals eravamo seduti con Kiki e la sua fidanzata e le ho detto: ‘Se noi continuiamo così, io ho finito. E ti avviso fortemente di prendere e andare a fare altro perché negli ultimi 4-5 mesi ti ho visto sorridere solo quando eri a casa. Tu stai facendo soldi, ma non ti porterà da nessuna parte: nessun soldo vale sentirsi miserabile in continuazione’. E questo era veramente il suo caso. Le ho detto che le cose dovevano essere diverse, e non era comunque la cosa più importante. La cosa più importante era la sua carriera. Se lei avesse lasciato il tennis, si sarebbe trovata a casa in 3-4 anni senza pensare che forse avrebbe potuto fare le cose diversamente? Poteva vivere con questa sensazione? Dopo due settimane di vacanza, la risposta era ‘no, non posso vivere con quello e proverò a fare le cose diversamente’. Lei ha messo giù un paio di cose e da lì ha cominciato a trattare il tutto in maniera diversa. Così quando ho visto che cosa aveva scritto di che cosa voleva fare ho detto “ok, ci sono”.
Quanto il lavoro del coach sembra simile a quello di uno psichiatra?
Avrei detto ‘psicologo’, ma se tu vuoi dire ‘psichiatra’ è un livello più alto, giusto? Sono felice lo abbia detto tu e non io (ride, nda). Sì, è un pacchetto completo. Tutte le ragazze che sono qui e tutte le ragazze a casa e quelle che si stanno preparando per Zhuhai sono ottime giocatrici e sanno come giocare. Ogni tanto però può succedere qualcosa, qualunque cosa, e loro provano a buttarti fuori strada. Credo che sia per questo che siamo qui: cercare di mantenerle su quella strada. Per dirti in una percentuale, direi il 50% l’uno e 50% l’altro.
Che cosa pensi invece della possibilità del coach di scendere in campo?
Non sono un grande fan di questa regola. Penso che il nostro intento principale, e con “nostro” intendo da un punto di vista WTA o di una tennista, tu voglia mostrare le giocatrici per quanto siano forti. Penso che spesso quando i coach scendono in campo non vengono usati come un aiuto, ma come un’ambulanza. Spesso lo chiamano quando è troppo tardi e noi vediamo le ragazze quando sono molto vulnerabili. Questo per me non dovrebbe essere mostrato. Posso comprendere se fossi a casa che mi sentirei molto interessato in che cosa il coach possa dire, ma lo stesso coach che va in campo con tante emozioni che girano in quel momento e magari anche il coach si trova un po’ in difficoltà perché vede da molto vicino una persona che conosce bene in difficoltà… Inoltre il puzzle va risolto da soli. Alle volte noi proviamo ad aiutare le ragazze, ma sono loro che devono trovare la soluzione. Non posso essere io. Ed è in questo momento che riprendiamo i punti che lei scrisse a fine della scorsa stagione. In un certo senso, una partita li comprende tutti. Ogni partita è difficile e tu devi affrontare i problemi e devi risolverli per conto tuo. Per me è una parte elementare del gioco ed è quella che amo di più. Ok, noi andiamo fuori e andiamo a confrontarci con un altro, e dobbiamo risolvere un puzzle contro un altro, e chi lo risolve meglio vince. Alla fine, stringi la mano e ti congratuli con l’altro. E non c’è nulla di sbagliato, e dovrebbe essere sempre così. Mi piacerebbe vedere le ragazze risolvere questi puzzle per conto loro e credo che siano completamente capaci di farlo. Credo che con l’on court coaching stiamo rallentando questa fase.
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