“Alla faccia di voler spegnere le polemiche”, verrebbe da pensare. A una settimana dal termine dello US Open, e dopo aver ascoltato un’enormità di opinioni sull’episodio, quando tutto sembrava poter lentamente tornare alla normalità piombano nuove dichiarazioni di Serena Williams riguardo gli episodi controversi che hanno caratterizzato la finale di singolare femminile.
La statunitense non cede di un millimetro dalla sua posizione, almeno questo è quello che traspare dalla risposta data a “The Sunday Project”, programma televisivo australiano, e di cui la prima versione è stata pubblicata in versione cartacea sul Daily Mail della nazione oceanica. “Mh…” è tutto quello che ha saputo pronunciare alla domanda se si fosse pentita della reazione avuta in campo sabato scorso. Un laconico, breve, verso che racconta tanto dell’insofferenza dell’ex numero uno del mondo che poco prima aveva detto: “Proprio non capisco. Se sei una donna, dovresti riuscire a fare almeno la metà di quello che possono fare gli uomini“.
Prima ancora, invece, l’ennesimo capitolo sulla vicenda del warning per coaching. A una settimana dalla frase, in conferenza stampa, dove si mostrava sorpresa delle parole di Patrick Mouratoglou che aveva ammesso il coaching (“Sono onesto, stavo facendo ‘coaching’. Non penso che lei mi stesse guardando e per questo lei non capiva come mai”) ha replicato con le stesse parole: “Non capisco, davvero, io e Patrick non abbiamo segnali concordati”. In questo momento, su questo malinteso, si sta scatenando il nuovo polverone di un fatto che ha assunto contorni molto distanti da semplici fatti di campo. Da lì Serena, impossibile dimenticarlo, ha cominciato a perdere la testa e ricevuto il punto di penalità è esplosa dalla rabbia accusando poi l’arbitro Carlos Ramos di sessismo perché se fosse stata un uomo lui avrebbe lasciato correre, finendo col ricevere un game di penalità. Su questo aspetto si è detto e ridetto di tutto, e non tutto (anzi) è corretto. Quando mai si è visto un game di penalità comminato a un giocatore o una giocatrice? Succede, ma è davvero raro, quanto basta per dimenticarlo tra i fiumi di partite, tornei, situazioni ed emozioni che i fan possono provare seguendo le vicissitudini dei loro beniamini (che magari non hanno neppure vissuto questa esperienza). Se poi abbiamo a che fare con gli “occasionali”, chi si presenta a seguire il tennis una volta all’anno perché in quella determinata circostanza (normalmente una finale Slam) c’è anche il loro preferito o la loro preferita, allora le probabilità che succeda un patatrac e ci si ritrovi a discutere con chi conosce a malapena il punteggio, ma si considera un esperto, aumentano notevolmente.
Il web da libero sfogo a tutti. Un bene, forse, ma che ormai nel più delle volte si sta trasformando in una pericolosissima arma a doppio taglio. Fate un giro su Twitter, se potete, e controllate cosa scrivono i tantissimi fan di Serena. Per loro, Carlos Ramos è un ladro, un bugiardo, sessista, razzista. Se lo supporti, spiegando i motivi validi per assegnare 3 warning, sei a tua volta un razzista, sessista, ladro e bugiardo. E di loro si stanno cibando le decine di pagine sportive (anche autorevoli come il sito statunitense tennis.com o della BBC) che nell’ultimo weekend hanno analizzato con la lente d’ingrandimento l’operato di Ramos nella semifinale di Coppa Davis tra USA e Croazia. Nel momento in cui a Marin Cilic è stato comminato un warning per la racchetta che volava a terra, apriti cielo: “Questo è sessismo! A Serena ha tolto un punto e a lui un semplice warning!” la frase più ricorrente. In questo tsunami di polemica nessuno di autorevole ha ancora avuto la mente lucida per spiegare che quella sera Serena ricevette il punto di penalità (e poi il game) perché nel suo caso era il secondo (e poi terzo) warning che riceveva. Andy Roddick, James Blake e John McEnroe possono ripetere quanto vogliono che loro, agli arbitri, dicevano anche di peggio, ma quanti warning avevano sul groppone? È lì che gira la vicenda, perché se Williams avesse insultato e aggredito verbalmente l’arbitro per un intero cambio campo, ma fosse stata ancora a secco di ammonizioni, tutta questa polemica (stucchevole) non sarebbe venuta fuori. E McEnroe dimentica che fu squalificato all’Australian Open 1990 per continui insulti all’arbitro. Giocando invece la carta della discriminazione nei suoi confronti, Serena ha commesso l’errore di scoperchiare un vaso di pandora nel momento peggiore possibile. C’è il razzismo (prima ancora che il sessismo) nel tennis? Sì, visto che nasce come uno sport di bianchi, i ricchi, e nella storia prima delle sorelle Williams si ricorda come afro-americana di alto livello soltanto Althea Gibson, a fine anni ’50. C’è stato sessismo (o razzismo) da parte di Ramos? No. Eppure contro di lui si è scatenata una processione di accusatori che, purtroppo, hanno avuto l’appoggio di due figure in questo momento fondamentali: Katrina Adams, direttrice USTA, e Steve Simon, gran capo della WTA.
Con grande fretta, forse mossi dal rischio di farsi nemica una delle personalità più influenti sul suolo statunitense (Serena, ricordiamo, oltre a essere la più vincente a tennis è quella persona che fu invitata al matrimonio dei reali di Gran Bretagna perché molto amica della sposa) hanno prodotto due comunicati dove, sostanzialmente, davano ragione alla prima e buttavano in pasto ai leoni l’arbitro, colpevole in fondo di aver fatto il suo mestiere dal primo all’ultimo warning. Eppure, dai rumors che circolano c’è molto malumore nella WTA per questa presa di posizione. Su YouTube, dopo una settimana, il rapporto è di 4 video dello sfogo della statunitense ogni video di highlights della finale. Ha vinto Naomi Osaka, lo ha fatto più che meritatamente, ma qualcuno si ricorda qualcosa della partita? No? Ha vinto Serena, dunque.
Come se questa situazione non fosse già abbastanza intricata, a buttare ancor più benzina sul fuoco ci ha pensato il marito di Serena, Alexis Ohanian. Il co-fondatore di Reddit se l’è presa molto duramente con Christopher Clarey, giornalista molto famoso nell’ambiente tennistico perché considerato tra i migliori nel fare il suo lavoro, tanto che il New York Times si è garantito ormai da anni i suoi articoli. L’ultimo è diventato preda del signor Ohanian che ha attaccato la presa di posizione di Clarey che, seppur con educazione, aveva criticato quanto detto da Serena in campo mostrando con una tabella una serie di dati che evidenziavano come in realtà gli uomini subiscono un numero di sanzioni maggiore in ogni settore, dalla racchetta spaccata all’insulto passando per l’infrazione di tempo. Qui potete trovare l’articolo di Clarey, dal titolo “Le donne sono davvero penalizzate più degli uomini? Le statistiche dicono di no” dove vengono riportate tutte le sanzioni dal 1998 a oggi. Soltanto alla casella “coaching” le donne hanno un numero di warning ricevuti maggiore (152 a 87) e per non essersi presentate alle obbligatorie conferenze stampa post partita (10 a 6). Il marito di Serena, recitando la sua parte alla perfezione, ha attaccato il giornalista dicendo che non ha tenuto conto della percentuale di incidenza, ovvero di quante volte (in percentuale) una sanzione è stata notata e non sanzionata. Dopo aver continuato a offendere il lavoro di Clarey, ha scritto: “Qualcosa di buono c’è. Ho deciso di donare 10 dollari per ogni parola in questo fuorviante articolo a Donors Choose Classrooms Project per permettere alle generazioni future di avere accesso alle conoscenze basiche delle statistiche”.
Essendo il marito di Serena, forse, non poteva comportarsi diversamente: dai cartelloni di Indian Wells per il suo rientro fino al “come on, Queen!” urlato più volte sul Centre Court di Wimbledon, alle numerose occasioni dove su Twitter ha speso parole di elogio e difesa. Era banale pensare si fosse ancora una volta gettato a spada tratta a “proteggere” la moglie. Il problema è che si è completamente perso di vista il punto iniziale: una chiamata che la tennista non ha saputo accettare. Il sessismo c’è, ed è più che mai giusto che si possa parlare di come, ad esempio, agli arbitri donna venga proibito di arbitrare partite nelle fasi finali del torneo maschile di Wimbledon; o di come sia spropositata la differenza economica tra i due circuiti soprattutto se il prize money viene a essere identico nell’unica occasione in cui i maschi giocano al meglio dei 5 set e le femmine (non per loro scelta, anzi sarebbero pure d’accordo) sono costrette a giocare al meglio dei 3; o di come viene malamente presentato il circuito femminile dagli stessi addetti ai lavori che se ne disinteressano fino addirittura a spostare la finale femminile di singolare a Wimbledon 2 mesi fa, idea che non può mai essere neppure concepita nell’altro caso; o di come uomini e donne abbiamo un “grunt” (il verso quando si colpisce la pallina) ugualmente molto rumoroso, ma l’uomo è considerato virile e il pubblico lo accetta, anzi lo esalta, mentre la donna è preda di critiche e sbeffeggi.
Avendo gettato questa bomba ora, in questo momento così sbagliato, non ha fatto altro che creare un gran caos dove a uscirne sconfitti siamo un po’ tutti noi che stiamo tirando fuori il peggio di noi stessi tra fischi, insulti, accuse. Il giudizio migliore, più razionale, è arrivato da Martina Navratilova una settimana fa: devi pensare più a cosa è concesso fare a un uomo, che commette un errore, o a rispettare e onorare lo sport che stai praticando?
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