Partiamo dall’unica certezza di cui siamo in possesso: comunque vada, il Roland Garros eleggerà una nuova campionessa. Dovesse essere Simona Halep, allora avremo una nuova vincitrice Slam assoluta. Parigi ci presenta una finale femminile abbastanza inattesa visti i valori che avevano le due parti di tabellone: se per la rumena però non è affatto una novità vederla all’ultimo atto da queste parti viste le finali già giocate nel 2014 e 2017, per Sloane Stephens non solo è la prima finale qui ma è in assoluto la prima in Europa. La statunitense vanta 6 titoli, il primo nell’agosto del 2015, conquistati a: Washington, Auckland, Acapulco, Charleston (terra verde), US Open e Miami. Un po’ più ricco il palmares della numero 1 WTA, che solo nel 2013 fu in grado di concludere la stagione con 7 trofei, i primi vinti in carriera nel circuito maggiore.
A settembre Halep compirà 27 anni e questa sarà la quarta finale Slam della sua carriera in un percorso che si è rivelato molto più difficile del previsto. Dopo l’exploit del 2013 quando passò dal numero 66 del mondo alle soglie della top-10 e la prima finale Slam un anno più tardi sulla terra rossa di Parigi, la rumena non ha più avuto chance per i successivi 3 anni. A livello di classifica è sempre stata una giocatrice di vertice: entrata in top-10 nel febbraio 2014 non solo non ne è mai uscita ma ha trascorso la maggior parte del tempo a cavallo tra la top-3 e la top-5. Eppure le difficoltà nei Major hanno fatto da contorno a quella che fu la difficoltà nell’agguantare il numero 1 del mondo nonostante le tante chance avute nel 2017. Dodici mesi fa, su quel Philippe Chatrier che la rivedrà ora in azione, perse quando non solo partiva con i favori del pronostico ma era anche avanti 6-4 3-0 e chance del 4-0, e poi 3-1 nel terzo. Al di là del punteggio, che la vedeva tanto vicina ma alla fine tanto lontana dalla vittoria, quella Halep non aveva nel proprio gioco i progressi fatti registrare in questa prima fase di stagione: molto più attendista, che si limitava (se vogliamo) al compitino e lasciava sfogare una Ostapenko quel giorno capace di imporre a pieno il suo gioco, con 54 errori gratuiti ma anche 54 vincenti.
Il suo livello generale si è ulteriormente alzato, con vari step anche psicologici che nei momenti importanti sia qui che in Australia sono serviti ad arrivare a due finali consecutive. A Melbourne il problema alla caviglia e la consapevolezza che non poteva migliorare l’ha portata a essere un po’ più aggressiva e a conti fatti ha ripreso partite ormai perse (contro Lauren Davis e Angelique Kerber) perché è stata lei a emergere, a farsi sentire in campo e a prendersi i punti che contavano. In finale fu ancora fermata in un terzo set con parecchi rimpianti perché lei era letteralmente sfinita, ma sul 4-3 (e lo ammise) si è rilassata nel tentativo di recuperare energie durante il medical time out di Caroline Wozniacki e invece tutti i suoi muscoli si sono spenti, perdendo i successivi 3 game. Qui a Parigi, al di là dei primi 5 game contro Alison Riske al primo turno, si sono avute soprattutto indicazioni molto positive in termini di mentalità e condizione atletico-fisica: niente maratone, ma un livello generale che si è innalzato partita dopo partita. Una piccola sbavatura contro Angelique Kerber è costata il primo parziale, ma ha avuto poi modo di recuperare e, soprattutto, nella sfida in semifinale contro Garbine Muguruza ha messo in campo un livello altissimo di gioco e nel secondo set, quando la spagnola stava cominciando a ingranare, non è mai veramente calata se non un attimo nel game perso sull’1-1. Non si è lasciata andare aspettando un eventuale terzo set, ma ritrovato a pieno quel tennis fatto di un’eccezionale profondità di colpi e di grande incisività nel palleggio ha poi costruito la rimonta da 2-4 a 6-4 tornando padrona del campo e dopo aver messo una pietra capitale sul match con il game del 4-4 salvato all’ottava parità.
Stephens è già sicura di uscire da Parigi con il numero 4 del mondo, la prima statunitense che non fosse una Williams da Lindsay Davenport a Indian Wells del 2006. Vorrà provare a continuare la serie perfetta che sta tenendo nelle finali (e il dato non banale è che ci sono anche tornei Slam e Premier Mandatory, non solo eventi di basso livello) e quello che sta impressionando di questa seconda carriera, dopo l’anno intero di stop per la frattura al piede, è questa apparente sicurezza dei propri mezzi che prima, nonostante venisse considerata nei primissimi anni di carriera una grande promessa, non aveva mai messo in campo. La sfida con Anett Kontaveit (6-2 6-0) e quella di semifinale contro Madison Keys (6-4 6-4) rispecchiano questa sensazione di superiorità, forse anche mentale, che ha quando va ad affrontare chi tende soprattutto a fare gioco. Lei è una giocatrice più d’attesa, una che difende molto bene, si muove altrettanto bene lungo il campo (e soprattutto su questa superficie che dice di adorare): non la vedrete quasi mai scomposta né dare l’impressione di sforzarsi quando colpisce nonostante poi la palla esca piuttosto forte dalle corde. Eppure in questo momento, quando è pienamente nel match, è durissima da battere e come avvenuto in semifinale sembrava quasi stesse giocando una partita con la consapevolezza che se avesse tenuto un livello medio dell’80/85% avrebbe portato a casa la vittoria senza grandi patemi.
Il dato molto importante è che dal 2015, quando raggiunse la sua prima finale a Washington, Sloane ha una media di una finale ogni 5 tornei e mezzo (38 gli eventi giocati) e una percentuale del 18,42%. Se però togliamo tutte le eliminazioni al primo turno (17) i numeri si fanno ancora più tosti: una finale ogni 3 tornei esatti in cui vince almeno una partita, con la percentuale che schizza al 33,33%. Numeri banali, per alcuni, dati che forse descrivono meglio di altri quello che sta realizzando Stephens, che ricordiamo era numero 957 del mondo a inizio dell’agosto 2017 e lunedì sarà numero 4. Con una vittoria supererà quota 6000 punti (6193) e fino a Montreal ne avrà appena 11 in uscita, di cui 10 nella stagione su erba. Con tutti i punti che perderanno le giocatrici di altissima classifica, può già sperare quantomeno di essere sul podio della WTA dopo lo Slam su erba.
Intanto ha una nuova finale Slam da giocare dopo quella comunque sorprendente di New York. Ora non è più da considerare come tale, anche se qui partiva come quindicesima favorita secondo i bookmakers che non sempre raccontano la verità su quello che succede, soprattutto in un universo come la WTA dove tutto è così incredibilmente livellato ai vertici che persino le giocatrici più aggressive stanno facendo fatica a vincere Slam. L’ultima fu Garbine Muguruza, a Wimbledon 2017. Da lì in avanti è iniziata una serie dominata dalla cosiddette “counter-puncher”, coloro che hanno grande capacità a ribaltare gli scambi, come Halep e Stephens.
La rumena è avanti, per quello che possono valere gli scontri diretti alla vigilia di una finale così importante per entrambe, 5-2 nei precedenti. Le vittorie ottenute da Stephens risalgono entrambe al 2013, nella prima parte di stagione. Halep ha vinto sia i due confronti giocati sulla terra battuta sia i due confronti giocati da quando Sloane è rientrata nel circuito.
La statunitense dovrà un po’ cambiare tattica perché se contro Camila Giorgi, Kontaveit e Keys sviluppava al meglio le sue doti di contenimento e di ripartenza, con Halep la partita sarà abbastanza diversa perché la numero 1 del mondo vorrà prendersi i punti e non lasciare l’iniziativa all’avversaria, cercherà di spostarla il più possibile come ha fatto con Muguruza e con la spagnola la tattica funzionava proprio perché quest ultima non riusciva più a colpire come voleva. Con Sloane dovrebbero crearsi diversi scambi lunghi, con entrambe alla ricerca della profondità. Forse le sarà d’aiuto la partita vinta contro Daria Kasatkina ai quarti (6-3 6-1), dove lasciava che fosse la russa a costruire gioco per gran parte dell’incontro e poi, quando era lei a decidere di accelerare, chiudeva quasi sempre il punto in al massimo 3 mosse. Ovviamente Kasatkina non è Halep, ma questo è un dettaglio che rende ancora più incerta, sulla carta, la sfida che eleggerà la nuova campionessa del Roland Garros.
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