L’anno scorso, di questi tempi, Marco Cecchinato era a Caltanissetta. Giocava un challenger, uno dei tanti, battuto nei quarti da Stebe, un tedesco. Parigi era lontana due mila trecento quattro chilometri. Tre ore di aereo. Ventitre di autostrada.
Ricordarlo gli fa bene. «In fondo, questo dice tutto», è la breve replica alla considerazione che abbiamo buttato lì, fra le tante della conferenza stampa che chiude la sua avventura a Parigi. Se ci credete, quei 2304 chilometri hanno una valenza ben più alta di una semplice indicazione geografica, forse rappresentano davvero la distanza ideale che Marco ha compiuto con appena sei balzi, quelli che lo hanno portato alla semifinale al Roland Garros. C’era un Marco che ora non c’è più, all’inizio del torneo. Quello di oggi è oltre due mila chilometri più in là.
Vi sono molti modi per perdere, e il dubbio che Marco Cecchinato non abbia scelto il migliore resta. Non è stato quello dei giorni scorsi, e forse nemmeno avrebbe potuto. La prima volta sul Centrale, un campo che sembra grande il doppio, il pubblico che incombe sui tennisti. E anche l’avversario era il più forte che questi quindici giorni gli abbiano proposto, Dominic Thiem, numero 8 della classifica mondiale. In tribuna c’erano i familiari, gli amici, gli amici degli amici, erano in cinquanta, «avrei voluto regalare a tutti una nuova emozione», sussurra. E c’è chi giura sia uscito dal campo con gli occhi velati dalla commozione, dopo il lungo abbraccio a Thiem, che in fondo ha atteso tre anni per essere promosso all’atto conclusivo del Mondiale su terra rossa. Poteva fare di più il nostro Ceck, ma il giudizio si limita a una partita, solo una, la semifinale. Uscire da questi confini, e ammantare dell’amarezza che viene dall’impresa mancata i quindici giorni più incredibili del nostro tennis, risulterebbe fesso più ancora che sbagliato. Il Ceck è andato ben oltre il dovuto. Ha portato Parigi e tutti noi a credere nelle sue doti, e di partita in partita, contro avversari che al massimo aveva visto in tivvù, il numero 11 Carreno Busta, il numero 9 Goffin, l’ex numero uno Djokovic, quelle doti si sono espanse, hanno attecchito, hanno reso una volta tanto gioioso questo torneo per i colori italiani, e hanno disegnato un po’ alla volta il futuro di questo venticinquenne che se ne va da Parigi con quotazioni talmente alte da rientrare fra le teste di serie a Wimbledon.
Sarà fra i primi trenta della classifica. «Era il sogno di un bambino, un sogno che si avvera. Mi ritroverò al fianco dei giocatori più forti del momento», dice. Ha imparato tanto in queste giornate parigine, gli stimoli sono stati forti come non gli era mai capitato di provarli. Ora Marco Cecchinato sa che può spingersi in alto, giocare alla pari con tutti. Parte da Parigi con la voglia di ricominciare presto, di gettarsi a capofitto in nuovi tornei. Ha scoperto cos’è la determinazione. Ha capito quanto possa pagare il lavoro duro, se fatto bene. E anche di possedere un suo gioco, sul quale dovrà lavorare ancora molto, per affinarlo sempre di più, ma è un tennis che ha sconfitto alcuni dei più forti. Sono tutte novità che lo hanno emozionato. «Mi sento nuovo». L’ha detto sin troppe volte, in questi giorni. Evidentemente è quella la sensazione dominante.
Marco Cecchinato è finito battuto in questa semifinale quasi esclusivamente per evitabili demeriti tennistici, per non aver retto al meglio la risposta ai servizi di Thiem e non aver sfruttato i due set point che un lungo tie break a chiusura del secondo set gli aveva servito su un vassoio dorato. Questo, e anche una certa ostinazione da parte di Thiem nel ripetere all’infinito il tennis che sa fare, errori compresi, hanno portato il match, per i primi due set su binari di parità. Marco ne esce battuto, ma non a pezzi, e se avrà modo di fare il conto delle note positive e negative di quest’avventura, è probabile che quel groppo alla gola con cui è uscito dal campo, si scioglierà presto in un sorriso.
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